Renzo Arbore su Mariangela Melato: «Senza di lei sarei stato un uomo diverso. E peggiore»

16/08/2016 di Boris Sollazzo

RENZO ARBORE E MARIANGELA MELATO –

Un grande amore. Di quelli che non hanno bisogno di pagine di giornale, di gossip, di melense dimostrazioni di affetto pubbliche. Anzi, quando erano insieme, in tv magari, fingevano sempre quel romantico cinismo di cui erano ben dotati tutti e due: battute affilate e arguzie, così si punzecchiavano. E solo gli occhi tradivano l’amore, totale e dolcissimo, che li univa.

“Non è facile raccontare Mariangela e non solo perché l’ho amata fino all’ultimo” confessa Renzo Arbore a Simonetta Fiori di Repubblica in una splendida intervista fatta a pochi passi dall’autoritratto della grande attrice, con su il berretto de “La classe operaia va in paradiso”.

Era ricca di grazia, come seppe cogliere Alda Merini. Con la grazia faceva tutto: lavorava, amava, imparava, ballava. Ha saputo perfino morire con grazia

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Comincia così una di quelle chiacchierate che ti perdi a leggere. Con una di quelle frasi che ti serra la gola. “Eravamo due anime sulla stessa lunghezza d’onda”. E ricorda che anche durante la lunga separazione rimase la loro complicità. “Giravo il mondo e compravo delle cose pensando: a Mariangela piaceranno. Lei lo stesso. Poi ci siamo ritrovati. Sembra un fidanzato all’inizio della sua storia d’amore, Renzo, quando ricorda il loro primo incontro “a una prima al Sistina. In mezzo a persone tutte uguali arrivano questi due occhi grandi come fari e bistrati, un capello bicolore. Il suo tratto esistenzialista mi colpì così tanto che vinsi la timidezza e la invitai a una festa musicale da me”.
Lui si innamora appena inizia a ballare. Lei appena capisce che lui guarda oltre. Eppure non potrebbero sembrare più distanti: l’attrice del cinema impegnato di Petri e il disc jockey foggiano. Ma galeotto sarà Lucio Battisti.

Una serata molto tranquilla a casa di Agostina Belli, alla fine della quale ci ritrovammo seduti a terra: io impunemente misi una chitarra nelle mani di Lucio Battisti, che cantò un brano ancora inedito: Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi. Sembrava scritta per noi. Ci guardammo a lungo, poi una stretta di mano che diceva tutto. Cominciò così

Comincia una storia vissuta tra localini di Trastevere e il teatrino off D’Origlia Palmi. Tutta su una Cinquecento scassata, “nessuna velleità divistica”. E, scoop, andarono anche a vivere insieme (anche se lei disse sempre che lui non aveva voluto).

anche se i primi tempi ero restio a restare a dormire a casa sua. Ma lei rideva moltissimo, rendeva tutto lieve. Abbiamo riso tutta la vita. Ridevamo delle cose serie e delle cose importanti. E perciò una volta ci dicemmo: quando smettiamo di ridere, è meglio lasciarsi

Poi l’America per lei, a inizio anni ’80, un anno e mezzo lontani e forse la voglia di raggiungere il successo vero. Viene meno la complicità, le risate. E si lasciano, con il sorriso.

So bene che ha sofferto senza farmelo pesare. Così come non è mai venuta da lei una parola sgradevole nei miei confronti. La verità è che Mariangela era una persona superiore, nobile nel senso vero del termine. Una qualità che avrei messo a fuoco soltanto più tardi: una nobiltà d’animo che le impediva di cedere ai compromessi, di ossequiare i potenti, di rubare i primi piani come facevano tutti al cinema, di essere libera dal danaro. Senza Mariangela sarei stato un uomo diverso. Mi ha fatto crescere, insegnandomi il rigore e la fatica. Se ho fatto cose buone nella vita, se mi sono comportato in un certo modo, lo devo al codice morale di Mariangela. Si deve studiare tanto, si deve lavorare moltissimo per migliorare, per sprovincializzarsi, per essere bravi. E lei era bravissima

Glielo disse Renzo. A Monza, su un palco. Non stavano più insieme ma lei venne a un suo concerto. Davanti alla platea la ringraziò, proprio con queste parole. Lui non smette di raccontarla.

Un altro aspetto che mi incantava era il suo restare bambina. Era una combattente, ma bastava un niente, una piccola sorpresa per suscitare il suo entusiasmo

Scherza sulla voglia mai confessata di Mariangela di una vita normale, di un matrimonio, di una famiglia. Sull’amico che li sfotteva “Renzo sposeresti Mariangela?” chiedeva. E io “sììì, subito”. E lei “no, mai…”. Eppure ci erano andati vicini.

Giravo con la lista dei documenti preparata da mia madre. Ricordo la gioia di Mariangela quando le regalai il bracciale di mamma a forma di vipera. Lei mi ripagava con regali straordinari come la panchina verde da giardino con su scritto Renzo e Mariangela e un cuoricino. Di recente ce lo siamo domandati: se ci fossimo sposati…? La vita è andata in un altro modo.

Si sono di nuovo trovati, nella maturità.

È avvenuto in modo naturale, sempre con il sorriso. È stato come ritrovare la propria giovinezza, l’intimità dei primi tempi. Purtroppo poi è arrivata la malattia, un castigo che non si può giustificare. Mariangela aveva avuto una vita non facile, conquistata a bracciate faticosissime. Il tumore l’ha affrontanto come un’eroina classica, sottoponendosi a ogni genere di tortura. E continuando a lavorare

Le lacrime sono difficili da contenere, anche per chi legge, all’ultima confessione di Renzo, ragazzaccio discolo e joker (ci piace immaginare che nella sua accezione questo voglia dire dj).

Ho trovato talmente ingiusta la sua malattia che mi sento colpevole di stare bene. E oggi che faccio teatro anche io con l’Orchestra Italiana, di fronte agli applausi penso che sia Mariangela a proteggermi da lassù

(in copertina foto ALESSANDRO DI MEO /ANSA /JI)

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