Il voto anti elite degli outsider che rischia di travolgere Matteo Renzi. E la sua narrazione

21/06/2016 di Marco Esposito

Nel 2012, dopo la sconfitta alle primarie contro Pier Luigi Bersani, Matteo Renzi tenne probabilmente il discorso più bello della sua vita politica. Un discorso in cui, senza alcuna scusa, si assunse totalmente la responsabilità di quella sconfitta. Ammise i (pochi) errori che aveva fatto, mettendo a nudo quello che era mancato per convincere la maggioranza degli italiani. Venerdì, ci aspettiamo dal premier un discorso analogo, franco, schietto. Un’analisi che metta in luce cosa non ha funzionato negli ultimi mesi del suo governo, e del racconto che è stato fatto al paese.

Dopo pochi mesi di governo Matteo Renzi stravinse le elezioni Europee portando il partito democratico al 40%. Perché convinse così tanti italiani? Perché Renzi e il suo governo rappresentavano per quegli italiani una possibilità di cambiamento. L’ex sindaco di Firenze era la speranza di cambiamento di un paese stremato da una crisi economica lunghissima. Ma soprattutto l’allora nuovo presidente del Consiglio riusciva ad incarnare la speranza di miglioramento della propria vita per i tantissimi italiani che – ancora oggi – si sentono degli outsider. Degli esclusi. Persone che non trovano una strada per rendersi autonomi, per vivere dignitosamente. Cittadini strozzati dalla crisi economica dalla quale il paese non riesce ad uscire definitivamente. Giovani laureati o diplomanti che non hanno più la speranza di cambiare la propria situazione sociale. Cittadini che non credono che questo stato di cose possa permettere loro una vita dignitosa. Hanno pensato che con Renzi l’ascensore sociale potesse tornare ad esistere.

Dopo due anni costoro non hanno trovato, in molti casi, soluzione ai loro problemi. Eppure – starete pensando – questo governo, rispetto a quelli precedenti, ha fatto molte riforme. La riforma del lavoro, le unioni civili, gli 80 euro, la buona scuola, la riforma costituzionale. Ebbene molte di queste riforme, come gli 80 euro,  si rivolgevano comunque agli “insiders”. Cioè a chi è già dentro il sistema. Gli 80 euro erano per chi aveva già un lavoro, magri un co.co.pro ma comunque un lavoro. Il Jobsact è stato apprezzato da coloro i quali – magari trentacinquenni – hanno visto diventare il proprio contratto a progetto, che spesso doveva essere rinnovato ogni 6 mesi, in un contratto a tutele progressive, che comprendeva ferie, straordinari, buoni pasto, permessi orari. Un provvedimento visto positivamente da chi è già “insider”, appunto.

Ecco, invece, chi “stava fuori” dopo due anni, ha semplicemente scelto l’altra opzione di cambiamento. Quella più radicale. Il Movimento 5 stelle, votato dai giovanissimi, è diventato il partito con più appeal per coloro i quali si sentono esclusi. Chi ha 30 anni oggi ha sentito il presidente dell’Inps dire che andrà in pensione dopo aver compiuto 70 anni, cosa di cui – incredibilmente – nessuno nel governo sembra volersi occupare adesso.

Il M5S promette sic et sempliciter di ribaltare il tavolo. Cosa che per costoro è più che sufficiente per votare il M5S, poiché in questo status quo non hanno nulla da conservare. Un cambio radicale non li spaventa perché nulla hanno da perdere. E questo, inesorabilmente, passo dopo passo, ha spinto il Pd di governo a diventare sempre più “istituzionale” e conseguentemente “conservatore”. Matteo Renzi prende nel 2013 un partito di sinistra diventato conservatore dello status quo, lo scuote, e lo porta al 40%. Oggi, la spinta riformatrice dell’esecutivo sembra essersi attenuata, e i cittadini lo puniscono.

Perché il voto degli italiani è un voto anti elite, anti establishment. Il nostro è un paese dove la rabbia e la frustrazione sembrano avere la meglio su tutto. Nell’occhio del ciclone non c’è solo il Presidente del Consiglio o il Pd romano o il sindaco uscente di turno: ma tutto ciò che in qualche modo è assimilabile ad un potere. Economico, editoriale, istituzionale. Nulla si salva in questa furia in cui non si fanno distinzioni. Agli occhi di un numero crescente di italiani c’è un gruppo ristretto di privilegiati – dai politici ai giornalisti, passando per amministratori di municipalizzate o manager di stato – assimilabili tout court a dei “parassiti”, amici degli amici, parenti o conoscenti di turno che – senza alcun merito – occupano posizioni che non meritano. E il M5S ai loro occhi ha il merito di “lavare” quest’infamia, mandando “tutti a lavorare”. Per questo domenica notte invitavano leader e sindaci del Pd a “stampare i curriculum” e inviarli per trovarsi un lavoro. Un furore ideologico, che si nutre di “risentimento sociale” e odio quasi antropologico nei confronti dei nemici, che non sono solo avversari politici, ma qualcosa di più. Qualcosa da abbattere, da cancellare, perché  portatori di valori “impuri”.

Ecco, in questa situazione il racconto di Palazzo Chigi non può reggere. Va aggiornato, va cambiato.

E’ evidente a questo punto che Matteo Renzi non debba inseguire improbabili alleanze con stanchi pezzi di classe dirigente di “sinistra sinistra”, ma debba cambiare il racconto che fa del paese. Non c’è nulla di più frustante per chi si sente escluso da tutto, quanto la narrazione portata avanti dal premier secondo il quale il paese colleziona successi. E’ vero a nostro giudizio che il paese, lentamente, si sia rimesso in moto, ma non basta. I tempi di cambiamento del paese sono infinitamente più lenti di quanto chi ha scelto Matteo Renzi nel 2014 si aspettasse, e per questo motivo, non è soddisfatto. Il premier non deve inseguire il passato di “sinistra” del PD che non ha mai portato a vincere alcunché, ma deve allargare. Non tanto il perimetro del gruppo dirigente – cosa che comunque non farebbe male, soprattutto a livello locale – ma la base dell’azione di governo. Tornare a parlare a quel ceto medio strangolato dalla crisi, che ha visto la propria capacità d’acquisto dimezzarsi, che è spaventato perché sente letteralmente venire meno il terreno sotto i piedi, e che non vede come – se non attraverso l’ennesimo cambiamento – possa uscire da questa situazione.

Non so quantificare esattamente quanta parte del voto di queste amministrative 2016 sia uno schiaffo indirizzato al presidente del Consiglio, e quanto sia una risposta alle questioni territriali dei comuni in cui si è votato, ma so che comunque una parte – non trascurabile – dell’elettorato chiamato alle urne ha voluto inviare un segnale al presidente del Consiglio.

Coglierlo è una conditio sine qua non per rilanciare l’azione del governo di Matteo Renzi, cambiando una narrazione eccessivamente trionfalistica e sintonizzandola con un paese ancora in affanno, spaventato e arrabbiato.

Il contesto con cui Renzi si trova ad avere e che fare è completamente mutato rispetto al 2014, al premier il compito di ribaltarlo.

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