Femminicidio: sono solo dei maledetti bastardi, altro che amore criminale

09/06/2016 di Boris Sollazzo

Non se ne può più. Leggo le notizie sulle donne uccise e non ce la faccio più: a pag. 17 de La Stampa c’è persino un “Femminicidi” come se quella sezione fosse divenuta un servizio come “Cronache”, “Spettacoli”, “Moda”.

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Non ce la faccio più per la barbarie che rappresentano, questi delitti, in una società che vorrebbe definirsi civilizzata. Sono diminuiti per quantità, i femminicidi, ma ha ragione Filippo Facci quando dice che si dovrebbe parlare di familicidio: è quello il nucleo sociale in cui l’orrore quotidiano spesso gioca la sua partita, protetto dalla mitizzazione bacchettona della famiglia di religione, politica e società. Ma ne è salita la “qualità”: i modi in cui avvengono, la violenza che trasmettono a chi vi assiste e a chi li subisce hanno una ripercussione drammatica sul tessuto emotivo della collettività.

Non ce la faccio più perché no, non siamo diversi da quando sopportavamo, nel codice penale come nelle cronache e nell’opinione pubblica, il delitto d’onore. La donna adultera, ricordate, poteva essere uccisa in Italia, con poche conseguenze, fino a pochi decenni fa.

Non siamo diversi perché le uccidiamo Michela, Federica, la giovanissima Sara, quando raccontiamo le loro storie.

Con quelle foto, sempre con il loro assassino. Sorridenti, abbracciate al loro carnefice, istantanee di quella felicità perduta. Quasi fosse una loro colpa che quell’immagine non vi sia più, proprio ciò che le imputavano, fino all’ultimo secondo di vita, quei maschi incapaci di vivere la realtà, di mettersi in discussione, di rispettarle. Protettivi, gelosi, galanti durante la storia, ossessivi, violenti, criminali (sì, è questa la parola: se chiami ogni 10 minuti, sei uno stalker e quindi un CRIMINALE, se usi un’app per seguirmi, sei un CRIMINALE, se mi minacci, idem) dopo.

E noi cosa facciamo? Una trasmissione televisiva – peraltro ben fatta – chiamandola Amore criminale. Scriviamo fiumi di carta in cui la progressione narrativa è sempre la stessa, tanto che potremmo leggerle ad occhi chiusi. “Vincenzo, Luigi, Manuel erano felici. Sognavano una vita insieme a Sara, Federica, Michela”. Oppure, variazione sul tema, “fidanzati felici, invidiati da tutti, poi il matrimonio e i figli. Tutti li vedevano sorridenti, non si staccavano mai, poi qualcosa si spezza”. Già, è la vita. Non è una colpa, sono sentimenti. Ma tu lettore, sei già coinvolto. Perché le donne se ne vanno da quegli uomini incompleti che magari le hanno tradite, picchiate, trascurate, o che hanno semplicemente smesso di amare. Si può, la nostra democrazia vale anche nell’emotività. Ma leggete tutti i giornali e vedrete che l’empatia è per quell’uomo che fino ad allora “salutava sempre, era gentilissimo”. Soffriva, poverino. Ed ecco che, tac, qualcosa si spegne nella sua mente, il raptus. Sì, certo, un raptus di mesi e anni in cui quelle donne trovano il modo di denunciarli, magari ottenere diffide, entrare in una spirale di terrore. In cui quegli uomini si portano appresso pistole, coltelli, acido, alcol infiammabile. Chi non li ha in macchina, nel caso arrivasse un raptus?

No, basta. Lo dico ai giornalisti, ai comunicatori televisivi, persino alle donne che non di rado, come faceva Sara, per troppo amore (lei sì) proteggono i loro futuri carnefici. Ha ragione la mamma della 22enne Sara Di Pietrantonio quando ci ricorda che Vincenzo è “un giovane intelligentissimo”. Non ci sta alla vulgata comune del ragazzo impazzito, debole, psicopatico. No, sono assassini. Killer senza scrupoli. Che premeditano ogni giorno di rovinare la vita delle loro ex compagne, prima di porvi fine.

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Voi sapete quante donne, per fuggire dall’ex marito che le seguiva, sono morte uscendo di strada con le loro auto? Quante si sono suicidate o hanno visto la loro psiche cedere per i continui agguati dei loro ex fidanzati o compagni, mentali o fisici? No, perché sui giornali finiscono Sara, Lucia (non dimentichiamo chi sopravvive all’orrore), Oksana, Mary, Daniela, Jennifer, Cristina (Omes, stasera, 9 giugno, sarà proprio al centro di una puntata di Amore criminale condotto da Barbara De Rossi). Le scelgono i giornali e lo share le donne che meritano la nostra pietà pelosa, fatta di orrore a buon mercato e dolore sensazionalista.

Erano tanto innamorati? Amore criminale? No. Assassini. Torturatori. Bastardi. Cominciamo a usare i termini giusti. Forse quando morì Falcone, abbiamo giustificato Riina? Forse quando un uomo muore in seguito a una rapina, ricordiamo il momento in cui il ladro era una persona onesta? Sono criminali, coloro che compiono femminicidi. Usano mazze da baseball, puntano armi da fuoco alle tempie, bruciano i corpi, impiccano, strozzano, pagano qualcuno per uccidere o sfregiare. Cose che fanno i sicari o i malavitosi affiliati alla criminalità organizzata. Poi scappano, mentono, inventano alibi. Come i criminali, perché lo sono.

Quindi basta. Non chiamateli amori criminali. Non dategli attenuanti se dopo aver compiuto un omicidio, si danno la morte, non sono samurai dei sentimenti, solo egoisti violenti. Se siete un’assessore alle politiche sociali della Provincia di Udine come Elisa Asia Battaglia non pronunciate parole come “Davvero sconcertante come la morte sia stata l’unica via per superare lo sconforto”. No, non la morte. L’assassinio. Vile, codardo, intrufolandosi in case di cui hanno ancora le chiavi, chiedendo magari un ultimo appuntamento. Pianificano, ingannano, uccidono.

Ecco, ora avete ancora voglia di vedere le loro foto insieme? Avete ancora voglia di mancare di rispetto alle vittime raccontando la storia come un feuilleton ottocentesco di amori, lacrime e languide parole? No, vero?

Altro che amore criminale. Se uccidi qualcuno, in particolare una donna che dici di aver amato, sei solo un maledetto bastardo. E se racconti l’omicidio dalla parte dell’assassino, diventi complice.

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