Perché l’Italia non è stata ancora attaccata dal terrorismo islamico

«I prossimi saremo noi». Dopo Parigi e adesso dopo Bruxelles, il leit motiv è da sempre quello di un imminente attacco in Italia. Eppure perché il terrorismo islamico non ha ancora colpito le nostre città? Il Belgio ha una rete di intelligence e una serie di rapporti internazionali differenti rispetto a quelli italiani. Secondo quanto riporta l’ultima relazione presentata dai servizi di sicurezza italiani al Parlamento anche se il reclutamento islamico avviene prevalentemente per iniziativa personale, è il contesto a favorire l’ingresso alla jihad. La famiglia, il gruppo di amici, luoghi di aggregazione o disagio (come il carcere), perfino target sensibili, come gli ex combattenti libici da tempo in Italia.

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L’ITALIA E IL TERRORISMO ISLAMICO: LA QUESTIONE LIBIA

«La Francia – come ricorda Jean Guisnel, esperto di questioni militari e servizi segreti a Il Corriere – è in prima linea negli affari del Medio Oriente. E’ in prima linea quasi da sola nel Mali, dove combatte gli estremisti islamici. Ed è almeno in seconda linea nella guerra a bassa intensità contro l’Isis, colpendo con i suoi aerei in Iraq e Siria. Piccolo dettaglio, sul suo territorio c’è la più grande comunità islamica d’Europa». Il vicino Belgio ha forse scoperto troppo  tardi le cellule jihadiste nascoste nelle proprie periferie. Noi, dal punto di vista della strategia mediorientale, abbiamo ancora una posizione marginale. O perlomeno non belligerante. I nostri rischi aumentano man mano che l’Italia verrà maggiormente coinvolta sulla questione Libia. Quindi che fare? Il presidente del Copasir (il comitato parlamentare per la sicurezza) Giacomo Stucchi, ha sollecitato: «Ora serve con celerità una missione militare di robusto ‘peace-enforcemente’ in Libia. Se aspettiamo ancora la situazione potrebbe incancrenirsi con un aumento dei rischi per l’Italia». E ancora: «La paura di ritorsioni terroristiche con l’Italia in caso di intervento militare non può frenarci, anche perché i rischi per noi ci sono lo stesso». Anche perché, come ricorda Nicolò Pollari, ex direttore del SISMI a Radio 24, il rischio in un conflitto è «entrare da maiale» e uscire «da salsiccia».

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L’ITALIA HA IMPARATO NEGLI ANNI COSA SIGNIFICA TERRORISMO (NON SOLO ISLAMICO)

L’Italia dispone di servizi di intelligence con una grande attività alle spalle. Abbiamo strutture come il Comitato di Analisi strategica antiterrorismo, Aisi e Aise. Abbiamo la direzione della Polizia di Prevenzione (l’Ufficio Antiterrorismo) e il ROS dei carabinieri, la DIGOS. E abbiamo in un certo senso pagato e imparato da esperienze come gli anni di piombo. Ricordate la strage di Fiumicino del 1985, un duplice attentato terroristico a opera del gruppo palestinese estremista facente capo ad Abu Nidal? Come è successo per Bruxelles  e come racconta l’ammiraglio Fulvio Martini (all’epoca direttore del SISMI) nella sua autobiografia Nome in codice: Ulisse i servizi riuscirono a individuare l’arco temporale preciso in cui sarebbe avvenuto l’attentato. Ma qualcosa non funzionò. Abbiamo costruito una rete diplomatica più o meno efficiente, ma comunque presente. basta pensare all’Eni e al lavoro di Enrico Mattei (illuminante su questo è il libro Lo Stato parallelo), agli errori nella Crisi di Sigonella, ai rapporti tra Andreotti e Arafat. In Italia dall’11 settembre per adeguare gli strumenti giudiziari e investigativi sono stati ridefiniti i contorni del reato di cui all’art. 270 bis (ovvero l’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale). Non solo: è stato istituito da qualche anno il Casa (Comitato di Analisi Strategica Antiterrorismo), ovvero Polizia e Servizi d’Intelligence in collaborazione stretta col Viminale. Ed è in questo quadro di crescita dei servizi che – come ricorda l’interessantare dossier Ispi – si inserisce  il fallito attentato alla caserma militare Perrucchetti di Milano del 12 ottobre 2009. Un “attentatore solitario”, di origini libiche, Game Mohamed, 35enne e residente regolare. Non riuscì nell’intento di far saltare in aria la caserma ma quel tentativo permise di scoprire la sua vicinanza alla jihad: era tutta on line. E il suo ordigno era rudimentale.

IL TERRORISMO ISLAMICO IN ITALIA: COME SI RAPPORTA CON LA MAFIA

Ed ecco che ritorna il grande argomento: gli attentatori dove possono procurarsi le armi in Italia? L’Isis non ci attacca perché c’è la mafia? Questa tesi fu avanzata qualche mese fa da testate come Panorama che riportavano le parole di un ex agente dei servizi segreti. In realtà non è proprio così. Come sottolineò il vicepresidente della commissione nazionale Antimafia, Claudio Fava, durante una audizione all’Antimafia regionale sicula ci sono zone e zone. E niente è certo perché «la capacità di infiltrazione di questo terrorismo, talmente liquido, non ha alcuna possibilità di prevedibilità». La Sicilia però potrebbe avere, per esempio, un livello basso. Fava, per supportare tale tesi, citò gli anni di piombo in Italia. «In Sicilia non c’è mai stato l’insediamento del terrorismo e l’unica volta che Prima Linea provò a posizionare una sua base operativa alle porte di Catania fu intercettata e sgominata in sei ore. In quegli anni, a metà degli anni ’70, Cosa Nostra aveva anche una funzione di sorveglianza armata sul territorio, dove non a caso non si sono consumati mai neanche sequestri di persona e quando c’erano non avevano la funzione di estorsione di denaro ma di punizione mafiosa». Ricordiamo però che il controllo delle cosche in Italia non è quello di una volta. Su Vice, per esempio, è il professore Enzo Ciconte a ricordare che «la mafia non controlla il territorio italiano e non controlla il territorio di nessuna regione. Controlla solo pezzi di territori». Nella relazione dei servizi anche se la nostra criminalità organizzata ha posizioni decisionali e di comando le mafie straniere collaborano in sodalizio con le cosche locali specialmente dal punto di vista della manovalanza agricola. Ecco qui i dati Aise che offrono una fotografia della situazione:

IN BELGIO POLIZIOTTI FIAMMINGHI E VALLONI NON DIALOGANO TRA LORO

Altro fattore non indifferente è la mancanza di rete negli attacchi di Bruxelles. La storica spaccatura tra Fiandre e Vallonia non ha mai aiutato la scarsa cooperazione tra le autorità. Poliziotti separati in casa con l’area della Capitale divisa in 19 comuni che eleggono altrettanti borgomastri. Non c’è dialogo. Come ricorda lo scrittore Pieter Aspe a Il Manifesto: «La segnalazione che parte da Anversa o Liegi deve essere prima centralizzata a Bruxelles, presso l’intelligence nazionale, e quindi inviata alle autorità competenti della zona in cui vive il sospetto. Se poi, alla fine di questo lungo percorso si scopre che la persona ha cambiato casa, spostandosi anche di un solo chilometro e mutando perciò il proprio comune di residenza, l’intero iter deve riprendere pressoché da capo. Una vera follia».

(in copertina foto VIRGINIE LEFOUR/AFP/Getty Images)

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