Revenant: Leonardo DiCaprio vuole l’Oscar 2016. In bocca all’orso – RECENSIONE

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REVENANT, LA RECENSIONE –

Immaginiamoci la scena. Leonardo DiCaprio, dopo l’ennesima delusione con The Wolf of Wall Street accanto a una bottiglia semivuota di scotch invecchiato. Disperato, quasi piangente. L’Oscar l’hanno di nuovo dato a un altro. Sa che sui social lo stanno prendendo in giro. “Anche quest’anno l’Oscar lo vinciamo il prossimo anno”. E dopo una notte di sbornia e lacrime, ecco il leone ruggire in lui. Chiama l’agente, urla, strepita. Vuole un film che gli faccia vincere quella statuetta. Che è pure brutta e nel suo salotto di design starebbe malissimo, ma le ossessioni sono ossessioni. E il poveretto, di fronte alla sfuriata del suo miglior cliente pensa: Iñárritu. Solo lui può farcela.

Stacco, spiaggia caraibica. Alejandro, il cineasta messicano che con Birdman è diventato definitivamente un maestro, sorseggia un cocktail. Vicino a lui la famiglia, e gli Oscar. Sorride, non vuole lavorare ma solo riposarsi e godersi sole e mare. Sente le note de “La Cucaracha” – sì, ci piace pensare che ce l’abbia come suoneria del cellulare – e risponde a un numero che non conosce. Dice di no, rifiuta. Ma l’altro insiste. E lui pensa: cosa può farmi entrare nella storia più di un Oscar? Far vincere un Oscar a Leonardo DiCaprio. E accetta, con la moglie che alza gli occhi.

REVENANT, LA STORIA VERA –

Bene, non è andata così. Ci piace pensarlo, ma niente. Non è andata così. Il regista questo film cercava di farlo da tempo e, peraltro, inizialmente pensava ad un altro. E, peraltro, il divo inizialmente era scettico. Ma ai lettori meno attenti e tenaci rimarrà questo aneddoto, nel caso già non stiano più leggendo, e la bufala si diffonderà.
Iñárritu il libro su Hugh Glass, realmente esistito, lo aveva letto appena uscito (nel 2002) e quella storia di crudeltà umana e “naturale” lo aveva colpito profondamente. Così tanto da farne il progetto post Oscar, quello in cui poteva permettersi qualsiasi richiesta. E le ha fatte tutte: DiCaprio ha dovuto indossare due pellicce (una di alce e una di orso) per il peso complessivo di 45 chili in quasi tutte le scene; ha dormito in una carcassa e mangiato vero fegato crudo di bisonte (se avete il coraggio, cercate su Variety la sua descrizione della membrana che cede sotto i denti di un vegetariano convinto); si è fatto ricoprire di formiche per una scena poi tagliata, ha rischiato più volte l’ipotermia, si svegliava alle 3 per un trucco di quasi 5 ore. Ah, e se è vero che l’orso – quello divenuto famoso per i meme che davano a lui e non a Leo l’Oscar – è stato ricreato in CGI, le conseguenze di quella lotta sono vere, perché per realismo Alejandro ha fatto sistemare una serie di cavi, legati al suo protagonista, che lo sbattessero a terra, sugli alberi, sui rami con la stessa forza e violenza di un grizzly a protezione dei suoi piccoli. Inoltre Iñárritu e il suo fido e geniale direttore della fotografia Lubezki hanno voluto girare solo con luce naturale. Quindi massimo due ore al giorno (poco più di Malick che, come è noto, predilige quegli istanti che anticipano il crepuscolo e poco altro), in luoghi massacrati da condizioni atmosferiche rigidissime (Canada e poi Argentina: il trasloco in Sud America, causa lentezza delle riprese, ha raddoppiato il budget e fatto perdere un film a Tom Hardy).

A cosa ci ha portato tutto questo? A una straordinaria lezione di stile. Volevamo essere sicuri che Iñárritu fosse uno dei migliori registi su piazza, che DiCaprio avesse talento, coraggio e tenacia fuori dal comune e che Tom Hardy è l’antagonista più efficace di Hollywood e dintorni? Ora lo siamo. Però. Però Revenant non va oltre. Non va oltre la sua perfezione, oltre quel realismo accecante, oltre all’esposizione del genio di una troupe straordinaria – e decimata dagli abbandoni a causa delle condizioni difficilissime – di un cast pazzesco e di un regista che ci conferma di poter fare sostanzialmente tutto. DiCaprio è bravissimo a farci entrare nella scorza di questa guida, di quel XIX secolo americano fatto di violenza, cinismo e dolore, di una lotta per la sopravvivenza che diventa sopraffazione e ingiustizia. C’è Jack London, qui, ma anche Skolimowski, ma non c’è Iñárritu. Già, sei ammirato da ciò che vedi, ma non ci entri. Perché la scrittura di questo one man show non esiste, tutto è volto solo alla performance dei singoli. Che siano il regista, il direttore della fotografia, il reparto costumi, gli operatori di macchina (pensiamo alla scena di assalto indiano iniziale, clamorosa), DiCaprio. Che non recita, ma semplicemente soffre. Forse per reazione a quella statuetta che arriva solo a chi dimagrisce, ingrassa o si sfigura (e lui qui fa tutto). E così è proprio il villain Tom Hardy a spiccare, perché è l’unico che fa cinema. L’unico che cerca l’interpretazione, la finzione e non un realismo quasi pornografico, sadico e alla fine freddo.

REVENANT, LEONARDO DI CAPRIO, OSCAR –

E così finiamo per goderci il primo Oscar di DiCaprio per quella che, come spesso accade all’Academy, non è la sua miglior interpretazione. Ma solo la più difficile, fisicamente. Dovrebbe averne già tre in bacheca, finisce per portarselo a casa quando il suo talento ha lasciato il posto a una stoica resistenza. E questo, forse, voleva chi l’ha punito per così tanti anni, ovvero l’industria americana a stelle e strisce. Ricordargli che prima o poi alle sue logiche si sarebbe dovuto piegare.

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