Loro di Napoli, il film sull’Afro-Napoli United è da Champions – RECENSIONE

Cinema e calcio raramente vanno d’accordo. E se lo fanno, devono parlarsi, ma allo stesso tempo ignorarsi. Undici metri, il bellissimo film su Agostino Di Bartolomei di Francesco Del Grosso è un abile slalom tra le gesta di repertorio e le parole di chi ha affiancato il grande capitano della Roma, senza forse mai conoscerlo davvero, un percorso filmico in cui il calcio è detonatore, ma non protagonista.

Zero a zero di Paolo Geremei, che ripercorre tre favole calcistiche divenute incubi, tre giovani promesse non mantenute da se stesse e dal destino, sa raccontarti quello sport luccicante e meraviglioso, crudele metafora della vita e veicolo delle emozioni più potenti, lasciando però il pallone nell’immaginazione, scavando negli strani rimbalzi della vita.

Loro di Napoli recensione

Ecco, la prima sfida cinematografica vinta da PierFrancesco Li Donni con Loro di Napoli è proprio questa. Rendere il calcio detonatore, ma anche bomba visiva. Entrare in campo e nello spogliatoio senza farsi cannibalizzare, per poi cercare tutto ciò che c’è attorno. La scena della reprimenda dell’allenatore – troppo gentile per essere bastardo, ma quando ci vuole si fa rispettare -, ripresa da fuori, puntando su una porta con un’immagine sacra, con un movimento impercettibile e una cura del suono perfetta, ci dice molto della realtà di quell’avventura, della poesia e del fango che si mischiano nell’avventura dell’Afro-Napoli, del sogno di cuoio e dell’incubo di carte di cui è fatto.

Li Donni ha un controllo del materiale filmico che neanche Jorginho. Sa sempre cosa fare, quasi sempre la più semplice e giusta. Non ama i colpi di tacco, ma i lanci illuminanti. E si mette al servizio della squadra: non ha paura di mettere un anno del suo lavoro dentro 70 minuti. E’ la durata giusta e così la galoppata dalla terza categoria alla seconda diventa un montaggio (che bravo Matteo Gherardini, sorta di Allan che sa tenere insieme l’alto e il basso, l’immagine speciale con quella più sporca) capace di rendere quei campacci il centro del mondo, con riprese che ti fanno sentire nascosto tra i piedi di quei ragazzi che dentro le loro giocate ci mettono la vita, le speranze, a volte anche la propria debolezza. Loro di Napoli è un gioiello, per quella fotografia che cerca Napoli e la napoletanità di quest’esperimento sociale e sportivo, ma anche la sua universalità. Quando Chiara Caterina ci offre quella visione delle scene notturne in automobile, certi interni, lo spogliatorio e gli uffici, tu senti il cinema che parla alla realtà e viceversa. Volendo continuare a giocare sui paralleli con il Napoli di De Laurentiis, potremmo trovare in lei Callejon, l’ordine delle regole, la capacità di non tralasciare il dettaglio, la voglia di fare qualcosa in più.

La storia, poi, è perfetta. Da cinque anni l’Afro-Napoli stravinceva i tornei cittadini. Vuole entrare in Federazione, ma manca il castello di carte che un Parma magari può anche eludere per un po’, ma non l’Afro-Napoli. Certificati di residenza, permessi di soggiorno, anche solo un documento per l’apolide Lello, 23 anni, mamma nordafricana e padre italiano che non l’ha riconosciuto, mai registrato all’anagrafe e con un figlio e una moglie a Parigi. Senza identità, eppure basterebbe guardare i suoi occhi profondi per capire che non è un fantasma. Ostinazione, ottimismo, forza d’animo: il Presidente – lui è l’Higuain che fa i miracoli anche quando tutto sembra perduto – non molla. E ce la fa. E qui c’è il miracolo del calcio: noi seguiamo tre ragazzi: Adam, Lello e Maxime. Il portiere, il capitano e l’ex nazionale under 17 che sogna la A. Li Donni non si accontenta della favola, vuole la polvere. Vuole farci sentire la difficoltà di vivere, per questo lui e la sua direttrice della fotografia sono anche dietro le macchine da presa, non possono non sentirla addosso. La polvere dei campi e delle carte, ma anche di una città come Napoli, che annega nelle proprie difficoltà, ma sa anche risorgere con gli Antonio Gargiulo il presidente appunto, uno di quei sognatori concreti che trovi solo su quel Golfo che dà su un vulcano e forse ti dice che proprio vicino a una possibile catastrofe puoi trovare i tesori più belli.

Loro di Napoli ha vinto premi all’estero, come il Telerama a Biarritz, e ha trionfato al Festival dei Popoli di Firenze, una delle rassegne più importanti d’Europa e forse non solo, per quanto riguarda il documentario. Ma non conta poi granché, così come nella parabola sportiva di questa squadra di migranti e richiedenti asilo africani e sudamericani (che magari sognano di diventare Ghoulam o Higuain) non è determinante il fatto che stiano facendo calcio spettacolo, con gol a grappoli e tante vittorie e promozioni. Certo, è un segnale, il sintomo di un approccio serio, perché si insegna a questi ragazzi non a piangersi addosso e neanche a prendere scorciatoie (l’allenatore si lamenta dell’arbitro razzista, ma poi ai suoi dice, di un altro, che ha arbitrato benissimo), ma a vincere. A non sentirsi più perdenti. A sperare in meglio, a contare su se stessi, come succede a Maxime, che vuole un’altra squadra, vuole i soldi per mandare alla madre a cui scrive e di cui noi “spiamo” la corrispondenza, dolcissima ma anche ruvidamente vera.

Ora l’Afro-Napoli United è secondo in Prima Categoria, a soli tre punti dalla prima, i Leoni hanno imparato a vincere anche di misura e a resistere in 10, come domenica scorsa, ma è in questo film che capisci la loro forza, la loro motivazione, anche le loro fragilità (sì, lo confesso, quando scendo a Napoli vado a vederlo). Tattica e non solo. Loro di Napoli ci racconta l’Italia. Capoverdiani e ivoriani che potrebbero fare corsi di lingua partenopea, mischiati a italiani – tra cui l’allenatore, un personaggio meraviglioso – mostrano con i loro dubbi, la loro amicizia, le loro parole quanto sia stupido e violento dividere ciò che è già unito. E in una squadra di calcio, diventa di plastica evidenza. Non possono essere delle carte d’identità o dei permessi o dei certificati a definire cos’è un uomo, un cittadino, un abitante, di Napoli e del mondo. Non ci sono italiani o stranieri, ma solo comunità che devono volta per volta cercare il proprio scudetto, il proprio spogliatoio, la propria rimonta. Il concetto di straniero, qui, semplicemente non esiste. Persino la Figc l’ha capito e ha superato le sue regole arcaiche: sì, pensate, gli stessi che hanno scelto come numero 1 Tavecchio, quello di Optì Pobà.
Come diceva il prof. Bellavista, si è sempre a sud di qualcuno.

Ecco, il regista ha saputo portarci qui, nella modernità, pescando nell’anima ancestrale di Napoli, in quella del calcio, in quella del cinema. Non cerca acrobazie visive, la sceneggiatura è lineare e potente come una staffilata all’incrocio, gli “attori” sono schierati secondo il modulo più efficace.
Guardate Loro di Napoli – dovrebbe arrivare Microcinema a distribuirlo (e si sbrighi, è un consiglio) – e le ruspe avrete voglia di usarle solo per rifare i campi di San Giovanni a Teduccio, Piscinola e Mugnano. Che, diciamolo, lasciano un po’ a desiderare.

SPOILER: Maxime non è (ancora) diventato il nuovo terzino di Sarri. Per ora è ancora all’Afro-Napoli United (a Giuntoli, da tifoso azzurro, segnalerei tre o quattro campioncini, ma non vorrei togliere a Gargiulo e al mister la benzina per diventare il nuovo Carpi).

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