Marco Travaglio contro Daria Bignardi. Che giornalismo barbarico

19/02/2016 di Boris Sollazzo

Lo sappiamo, delle polemiche e delle liti tra giornalisti ve ne frega il giusto. Cioè poco e nulla.

E’ giusto così e forse il motivo sta anche nel basso livello del nostro mestiere, soprattutto quando deve saldare nuovi e vecchi conti con un editoriale. E’ quello che è successo con “L’ora Daria”, sapido pezzo del giornalista senza macchia e senza paura contro la nuova direttrice di RaiTre, Daria Bignardi, colpevole di aver tagliato in tempi di par condicio un’intervista ai suoi amici Vauro e Borromeo o di aver chiesto del padre fascista al delfino grillino Di Battista.

Eh sì, perché Marco, che conta amicizie e parentele della collega con la stessa ineleganza con cui storpia i nomi – artificio dialettico piuttosto avvilente per una penna come la sua, ma ormai tratto distintivo della sua prosa -, non nota che quando deve elencare gli sgarbi della conduttrice, giornalista e scrittrice, pensa a chi gli è più vicino. E che forse a lei invidia la nuova posizione perché lui che sognava d’essere il Kingmaker di Beppe ha fallito, mentre lei, a suo dire (e pure di Daria, se è vero che nei confronti di Renzi si sente “come Baudo”), la kingmaker di Matteo lo è stata.

Ma, per carità, la polemica è il sale della vita. E in una politica sempre più noiosa, fa anche bene che due giornalisti si graffino un po’. Ma è fastidioso il sessismo che c’è nel siluro che spara il direttore de Il Fatto Quotidiano. Che parla di lei come sfollagente per i bassi ascolti – è vero, non è mai stata una regina dello share, ma con altri programmi il nostro non è stato così severo, e poi Le invasioni barbariche furono, a loro modo, un cult – e poi la definisce come “nuora di Adriano Sofri”. Che, per dire, al Fatto son passati eccome colleghi (bravissimi, peraltro) con natali o alberi genealogici di tutto riguardo. E poi ricorda anche chi ne è il marito, casualmente editore di un sito che magari un po’ di fastidio a quello del Fatto lo dà. Ma figuriamoci se Marco Travaglio pensa a queste quisquilie, non si abbasserebbe mai.

Vuoi attaccare Daria Bignardi, Marco? Intervistala, mettila alle strette. Magari fai le pulci ai suoi ottimi libri, ad alcune interviste che non sono piaciute neanche a me – la deriva alla Fazio ogni tanto la prende -, non regalarci battute da bar né permettiti di fare una colpa di scelte di vita o colpe dei padri (quello della Bignardi sarebbe stato fascista? Embé? Voi per caso non avete intervistato Dario Fo per i suoi errori di un lontanissimo passato?). Snocciolare il curriculum di lei, poi, è un autogol. E’ stata in tutte le tv più importanti del nostro paese? E’ una garanzia. Pubblica con Mondadori? Lo ha fatto, per dire, anche Saviano. Che ha come agente Beppe Caschetto. Uno su cui è giusto avere qualche riserva, ma di certo non parliamo di Lele Mora.

Definire un professionista come Antonio Campo Dall’Orto come “il suo”, parlare di una collega come Leopolda Bignardi, non è da grande giornalista. Non è da allievo di Indro Montanelli che, anche quando giocava con le parole in modo pesante, non si regalava calembour troppo facili.
Allora, caro Travaglio, se come me sei preoccupato di una scacchiera dell’informazione troppo orientata verso Renzi, non attaccare un tuo pari con del rozzo bullismo giornalistico. Vuoi denunciare quanto il recente riposizionamento del Risiko dei grandi giornali abbia sorriso al nuovo premier? Fallo, ti applaudirò. Vuoi indicare come le scelte Rai siano a lui troppo affini per far sì che si sviluppi un dibattito forte tra i due mondi, come dimostra l’affaire Massimo Giannini, a cui quest’ultimo, da grande giornalista ha risposto alla grande (“La Rai può licenziarmi, il Partito Democratico no”)? Fallo, ti sosterrò.

Ma se fai così mi fai solo venire in mente che dietro al tuo attacco c’è, nel migliore dei casi, antipatia personale. Nel peggiore, un opportunismo alquanto furbo. E come substrato di tutto, c’è il sospetto che contro un uomo non avresti usato le stesse parole, battute e insinuazioni.

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