Perché ci è piaciuto credere alla bufala del buon Sarri

Diciamocela tutta. Aveva un po’ stancato l’immagine stereotipata del Maurizio Sarri allenatore operaio con il posto fisso in banca e il papà che lavorava all’Italsider di Bagnoli, gli occhiali fuorimoda, la tuta in panchina, a tazzulella ‘e cafè bevuta in campo nel bel mezzo di un allenamento, John Fante sul comodino e la prima volta in Serie A a quasi 60 anni suonati. Ce ne eravamo innamorati, ci piaceva quella storia lì, fin troppo bella, fin troppo di plastica: continuavamo a raccontarcela, perché al netto di qualche aneddoto gonfiato ci fidavamo di quella faccia, di quella onestà nel senso più alto del termine.

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Ci ha pensato Sarri stesso a riportarci alla realtà: mai avremmo pensato di inserirlo nella collezione dei Tavecchio con il suo «Opti Pobà che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio», dei Belloli con le «quattro lesbiche» del calcio femminile, eppure è successo. In realtà ieri sera non abbiamo solo scoperto di esserci illusi, ma di avere anche la memoria corta: il «frocio e finocchio» urlato a Mancini è solo la riproposizione di un’altra uscita da gentleman che risale al 2014, quando in Serie B dopo un’espulsione ritenuta eccessiva si lamentò di questo calcio «diventato uno sport per froci».

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Ciò che indigna di più di tutta questa storia è la gestione del postpartita di Napoli-Inter. Facciamo finta che espressioni becere e offensive come quelle possano anche scappare in 90 minuti di tensione – e non dovrebbero, mai: Sarri la figura da ignorante non la fa solo in campo ma soprattutto dopo. Il «Non ricordo le offese precise, potrei avergli dato anche del democristiano», quel sottotesto Mancini ha fatto la spia, infantile ai limiti dell’omertoso, quel «Ho tanti amici gay» degno del peggior Bagaglino e le risate crasse della sala stampa denotano un clima da bar di periferia di cui francamente ci siamo stufati. E di cui abbiamo finto che Sarri – e il Napoli di De Laurentiis – potesse non essere portabandiera. «In tutte le professioni all’aumentare dello stipendio corrisponde un aumento delle responsabilità. Solo nel calcio accade il contrario, e mi pare illogico» disse proprio Sarri in un’intervista alla Gazzetta. Ecco, l’allenatore toscano non guadagna tantissimo per essere il tecnico di una squadra che si sta giocando lo scudetto – e molto meno di Mancini – ma abbastanza per non urlare quello che urlerebbe il primo peracottaro che si siede sulla panchina del Tor de’ Cenci, del Mondragone o della Bedizzolese. Sarebbero bastate delle scuse piene e decise – De Capitani e Mazzocchi in diretta hanno dovuto cavargli le parole di bocca – senza tanti giri di parole e giustificazioni, sarebbe bastato cospargersi il capo di cenere e attendere serenamente la squalifica. Invece non è accaduto e Sarri e chi lo difende ne escono peggio di quanto sarebbe stato giusto. La colpa probabilmente è solo la nostra: aver sopravvalutato la statura di un personaggio come tanti altri.

Photocredit copertina BRUNO FAHY/AFP/Getty Images

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