La grande scommessa – The Big Short: recensione, foto e video

La grande scommessa “The Big Short”: recensione, cast, foto e video del film candidato agli oscar 2016 sulla crisi finanziaria tra il 2006 e il 2008

Due ore e dieci che sono un frullato ininterrotto di subprime, obbligazioni, mutui e derivati. Un alfabeto finanziario, agitato e anche mescolato. Solo che a servirtelo sull’orlo del baratro finanziario della crisi del 2006-2008 stavolta c’è una galleria di personaggi borderline.

LA GRANDE SCOMMESSA, IL CAST –

Una galleria che mette insieme lo sguardo autistico di un Christian Bale, la postura da trader controcorrente di Ryan Gosling e la barba da broker in esilio di Brad Pitt.

A cui si aggiungono le uscite a molla di alcuni inserti ironici al femminile di Selena Gomez o di Margot Robbie che – sguardo in macchina – cercano di buttarti lì un rapido bignami sui più complessi meccanismi della finanza.

“Non capite niente ugualmente? – ti vien detto – be’, nessun problema, è quello che vogliono anche le banche: non farvi capire”.

LA GRANDE SCOMMESSA, LA TRAMA –

A maggior ragione se il film non è solo una partita a ping pong tra capire e non capire, ma capotta per la prima volta le prospettive: qui a essere pedinati lungo le curve di quel biennio che ha portato al più grande crack americano dopo il crollo del 1929, sono le persone che avevano puntato tutto dall’altra parte, sul crollo del sistema. E in fondo, questa è la scommessa – didascalica ma efficace – della Grande scommessa a cui si riferisce il titolo italiano del film (in inglese è The Big Short) di Adam McKay. Un regista che – ex autore del Saturday Night Live – fino a oggi aveva fatto scivolare molto del suo cinema sui binari della commedia demenziale (da Anchorman a Fratellastri a 40), pellicole leggerine nella costruzione a tutta-gag, capaci di divertite fughe verso il non-sense così come di precipizi e inciampi verso peti, rutti e battute da bar sport. Un’eredità che qui si trasforma, si lima e s’ispessisce per diventare farsa: i binari da commedia non vengono completamente abbandonati, ma si “anneriscono” e diventano più “sofisticati”, proprio perché fatti viaggiare dentro la serietà di uno dei tunnel più traumatici degli ultimi anni, negli Stati Uniti prima, e in tutto il mondo poi, per le conseguenti ricadute. Già, quella crisi finanziaria che un po’ alle stregua degli altri grandi choc storici americani, dal Vietnam all’11 settembre, a distanza di anni dall’evento, torna continuamente a essere spugna assorbente per film che scandagliano, analizzano o rielaborano il lutto, cercando di riraccontare il tutto. Un tutto che, va da sé, non può che arrivare pezzo per pezzo, margine per margine, prospettiva dopo prospettiva, per l’impossibilità cinematografica di intervenire a cuore aperto, quando ancora l’emorragia del sangue della cronaca scorre nel pieno della sua emotività.

LA GRANDE SCOMMESSA, LA RECENSIONE –

Del resto, “la verità non è mai soltanto cronaca ma è anche rappresentazione delle passioni umane” aveva scritto a suo tempo Alberto Moravia, parlando del Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, proprio il regista che ha fatto da modello al grande cinema d’inchiesta internazionale, lui che si è sempre appoggiato a un doppio pedale quando ha voluto mettere gli occhi sui fatti più che controversi del passato: da una parte la distanza temporale (piò o meno una decina di anni), per potere lasciare sedimentare gli eventi, dall’altra una distanza critica per evitare le scorciatoie e le semplificazioni del racconto a caldo.

Distanze che – con le debite proporzioni – ci riportano adesso alle immagini, non ancora digerite e assimilate completamente, di quel fatidico biennio americano 2007-2008: l’esasperazione di prestiti e debiti, la bolla dei subprime, l’arrancare del mercato immobiliare, le case chiodate e abbandonate, fino ai cartoni in mano con cui escono gli operatori della Lehman Brothers nel momento della più impensabile disfatta. Per non parlare delle folle di persone rimaste di colpo senza tetto o senza lavoro.

Una costellazione di fatti su cui adesso iniziano a essere tanti i film che si sono cimentati nell’impresa di ri-raccontarli. A partire da chi, dopo il pamphlet di Michael Moore (Capitalism: a Love Story del 2009), ha usato il bisturi del documentario come Charles Ferguson che con il suo Inside Job (2010) arriva persino a vincere l’Oscar. Spacchettando eventi e argomenti in 5 capitoli, il racconto diventa un thriller documentato, grazie a quel continuo dai-e-vai tra le cause che hanno portato al macello e gli effetti che si sono propagati ovunque fino a scuotere la solida imperturbabilità di un’isola come l’Islanda. È il tic tac di una bomba il cui innesco viene fatto partire dalla deregulation voluta da Ronald Reagan negli anni Ottanta, poi gradatamente tutto si carica sempre di più, nella commistione tra finanza e politica e in quel continuo gioco al rilancio sul vuoto che diventa senza possibilità di ritorno, fino alla sua deflagrazione. Tantopiù che per spiegare il meccanismo nelle sue parole più complesse, il documentario si muove tra interviste e dichiarazioni d’archivio, puntellandosi attraverso le voci reali di economisti, banchieri, giornalisti e professori.

Sono le testimonianze dirette di una grande truffa che con Margin Call (2011) di J.C. Chandor hanno trovato una delle migliori incarnazioni nel salto verso la finzione. Concentrando dialoghi e azioni nella lunga e ultima notte di un manipolo di broker, pronti a vendere i titoli spazzatura prima che all’alba si diffondano le notizie sul vero stato di salute delle obbligazioni immobiliari. Un count-down da “fuori orario” che quasi teatralmente lotta nel chiuso degli uffici di Manhattan contro qualsiasi principio etico, perché in quella giungla claustrofobica la legge della sopravvivenza arriva prima di qualsiasi altra cosa. Gli effetti? Cinismo, velocità di decisione e quel “non abbiamo altra scelta” a far da bussola a ogni azione che, ancora una volta, trova la sua concretezza nei personaggi dei “cattivi” (Jeremy Irons, Kevin Spacey). Cattivi che qui si non si espongono con la bava alla bocca, ma restano sigillati nel loro look elegante, lasciando trapelare quel minimo sindacale di umanità che li rende comprensibili ma non perdonabili agli occhi del pubblico.

Tutto sommato, qualcosa che ricorda e riaggiorna, se vogliamo, le modalità di denuncia con cui Hollywood aveva già guardato al mondo della finanza e a Wall Street in particolare. Non a caso, a far da padrino a questi impiegati della finanza degli anni 2000, potrebbe esserci lui, il Gordon Gekko (Michael Douglas) del primo e storico Wall Street firmato da Oliver Stone nel 1987: quintessenza dell’eroe negativo che fa della sua sbandierata e rivendicata avidità la maschera-prototipo dell’homo finantiarius. Più o meno una sorta di Joker dei giochi in borsa, un modello talmente girato al contrario da renderlo affascinante, ma senza per questo nascondere l’afflato moralistico del film che gli alza il piedistallo per poi toglierglielo ancor più rovinosamente nella sua sconfitta.

Afflato moralistico che, per esempio, non c’è nel capolavoro di Martin Scorsese Il lupo di Wall Street (2013). Anche qui c’è una situazione da “rise & fall” del protagonista interpretato da Leonardo Di Caprio, ma l’ascesa e la caduta avvengono in quel carnevale orgiastico che è stato il mondo della finanza prima del suo crollo. Un capitalismo tachicardico visto attraverso lo scivolo di un piacere senza freni, pronto a sfidare ogni tipo di limite, fisico legale o stupefacente, perché basato su quell’azzardo che non conosce battute d’arresto, ma solo rilanci sul doppio della posta in palio. Un vortice che grazie all’occhio di Scorsese diventa visionario e ci porta su un baratro individuale prima ancora che si arrivi allo sfascio collettivo del 2008.

C’è la grande tragedia, prima ancora della vera tragedia. Che quando arriva come nel film di adesso di Adam McKay, La grande scommessa, può diventare farsa e funzionare attraverso un regime ridotto, con il respiro martellato da una serie allargata di siparietti esplicativi. Anche perché qui, per una volta il montare grottesco del vuoto su cui si regge la speculazione finanziaria cerca di trovare il suo corrispettivo in un grottesco da commedia che si muove a gag e scenette. Da una parte, hai il blabla astruso della finanza, dall’altra hai gli attori big a reggerne la scommessa. Personaggi a loro modo macchiette, con pochi squarci di background privato sullo sfondo, tanto sono impegnati nello spartito del film a non muoversi come i classici “cattivi” della finanza, ma a sfidarli sul loro stesso terreno e cioè scommettendo economicamente sul fallimento del sistema. Fatte salve alcune battute del personaggio interpretato da Brad Pitt (un ex-broker ormai in libera uscita con la passione dei giardinetti biologici), la loro battaglia da outsider scansa gli accenti moralistici, almeno quanto quelli umanitari. Vogliono vincere anche loro, perché per loro il sogno americano di farcela non è altro che avere la meglio contro il “sentire comune” che governa l’intero universo finanziario americano.

Forse la vera ironia del film sta tutto lì, in quel rovesciamento delle parti che però non rovescia lo spartito, perché sembra proseguire nello stesso gioco. Il guanto lanciato da tutti questi personaggi, caratterizzati da tic, nevrosi e comportamenti sopra-le-righe (su tutti, il Cristian Bale in infradito che suona la batteria in ufficio) diventa alternativo nel modo di presentarsi, ma non si discosta dalla volontà di far profitto, nel momento in cui tutto sprofonda. Una dimensione che, da questo punto di vista, il film rende bene attraverso il giro di giostra dei suoi burattini, tutti lasciati volontariamente a mulinare nella loro superficie. Così, anche lo slancio di chi è mosso in controtendenza, osando quello che solo in pochi potevano anche solo immaginare, diventa la porta girevole che sconfigge i tanti responsabili del crollo, ma senza bloccarli al muro delle loro responsabilità.

Non a caso, il vero veleno sta nella coda del film, quando ci vien detto che nel 2015 sono state riorganizzate operazioni finanziarie non tanto dissimili da quelle che avevano tolto l’ossigeno all’economia planetaria, solo che hanno cambiato nome e indirizzo, ripristinando un nuovo e astruso blabla. Che è come dire, intanto si ride, ma se il Titanic rimane Titanic l’orizzonte resterà a rischio iceberg. D’altra parte, “la verità è come la poesia e a nessuno frega niente della poesia”. È un’altra frase-cardine del film di cui viene esplicitata anche la fonte: “ascoltata in un bar di Washington D.C.”. A testimonianza, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto, volere o volare, gli atteggiamenti mimetici e gregari stiano alla base dei funzionamenti della finanza. Senza moralismi di sorta, un euforico così fan tutti.

 

 

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