TFF, in Afterhours il film più bello del festival. E’ Kilo Two Bravo

KILO TWO BRAVO –

Siamo quasi alla fine della 33ima edizione del Torino Film Festival, la nona targata Emanuela Martini – si deve essere onesti e riconoscerne il ruolo decisivo e centrale anche nelle direzioni Moretti-Amelio-Virzì – e si può fare un bilancio. Che può risultare sbagliato, ovviamente, perché quando un programma è ricco per quantità e qualità (150 opere e spicci), ovviamente devi sceglierti un percorso, perdere alcuni gioielli per strada e rinunciare a un approccio “enciclopedico”.

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Nel sentiero di Giornalettismo, è incappato Kilo Two Bravo. Quasi per caso, ma è stata una fortuna, perché, a nostro avviso, è il film più bello del festival. Senza nulla togliere alle altre sezioni – in Onde abbiamo visto diversi ottimi registi e opere interessanti, Festa Mobile è una bella panoramica sul miglior indie del momento, Torino 33 ha offerto diversi spunti di riflessione e i documentari non hanno tradito lo standard precedente -, con Afterhours ci siamo prima divertiti con il cinema di genere e poi abbiamo barcollato davanti al pugno in piena faccia che ci ha dato l’esordiente nel lungometraggio di finzione Paul Katis.

KILO TWO BRAVO, LA TRAMA –

La storia è semplice. Ma soprattutto vera. Nove anni, fa, siamo nel Kajaki (titolo originale del film), in Afghanistan. Una squadrà di parà è distaccata in questo posto dimenticato da tutti, ma non dai servitori di Sua Maestà. Terreno brullo a perdita d’occhio, come confine solo un cielo quasi accecante. Sono allegri, camerateschi, umani questi soldati che sembrano dover solo temere la pesca con le granate di pochi innocui autoctoni, quando decidono di farsi un bagno. Quasi si lamentano del fatto che non ci siano opportunità per combattere. Ma una discesa a valle, nel letto del fiume ormai inaridito, li mette di fronte a un nemico invisibile. Mine antiuomo, vecchie di un quarto di secolo, regalo mortale dei russi. Il più insensato, subdolo e spietato degli avversari in battaglia. Scoprono questo campo minato nel modo peggiore. E’ così che inizia uno dei più bei war movie degli ultimi anni. E il paradosso è che ci sono armi, divise e soldati. Ma non la guerra. Solo la sua stupidità.

Guarda l’intervista al regista Paul Katis:

KILO TWO BRAVO, LA RECENSIONE –

Paul Katis ha una buona esperienza di documentari, e si vede. Ha fatto ottimi cortometraggi e si percepisce da una rara capacità di sintesi e di gestione delle scene, narrativamente e visivamente. Quello che non sapevamo è l’altissimo livello che ha nello scegliere e far rendere al massimo gli attori in un’opera corale e claustrofobica, pur se a cielo aperto. Già, perché grazie al lavoro che fa con Tom Williams che gli ha consegnato una sceneggiatura di ferro e Chris Goodger che alla fotografia si supera, pur essendo costretto a sottostare alle regole di un sole impietoso, si costringe – anche per il basso budget – in pochi metri quadrati. Non ci sono pareti, né alberi canterebbe Mina, e il cielo è la stanza, ma rischiare di esplodere può rendere l’infinito claustrofobico. E per 108 minuti Katis, essenziale nel suo cambiare continuamente registro nella disperazione kafkiana che attanaglia attori e spettatori (simile alla paura e alla tensione che ti mette la Bigelow in The Hurt Locker, per cui a un certo punto esistono solo i soldati e la guerra la senti addosso), tra commedia quasi demenziale, melodramma (le confidenze di chi è ferito), tragedia e thriller.

E se tutti gli interpreti meriterebbero di essere citati ed elogiati – Katis concede a ognuno di loro inquadrature e dialoghi o monologhi che ne evidenziano il talento e che permettono di non avere comprimari ma solo coprotagonisti (si pensi a Andy Gibbins, bravissimo nel suo soliloquio incazzato) – è giusto sottolineare la performance di David Elliot, leader carismatico del gruppo, Mark Stanley (il medico, fenomenale nel tenere in sé le diverse anime della squadra) e Scott Kyle, ordinario in piedi ma da urlo, in tutti i sensi, a terra.

KILO TWO BRAVO, L’USCITA IN SALA –

Qui c’entriamo noi. Già perché l’America l’ha voluto dopo il passaggio a Toronto, l’Inghilterra l’ha apprezzato anche perché mette un faro su quei quasi 500 caduti nella guerra sporca in Afghanistan e su uno dei fatti più dolorosi di questo conflitto (una percentuale altissimi di caduti “occidentali” vengono abbattuti da fuoco amico o da “incidenti”). L’Italia non ha ancora un compratore per il film, forse anche perché tra i maggiori produttori di mine antiuomo ci siamo proprio noi italiani, che ci aggiudichiamo una bella parte dei miliardi di dollari che generano questi strumenti di morte, che fanno peraltro l’80% delle loro vittime tra i civili, e in particolari colpiscono donne e bambini. E solo da pochi anni la legge impedisce a banche e istituzioni pubbliche italiane di investire in quest’industria: il paradosso è che paghiamo Onu e ong per sminare terreni e nazioni che abbiamo contribuito a rendere letali: così i privati guadagnano e il pubblico spende, peraltro.
Paul Katis a Giornalettismo l’ha detto, un modo per portare quest’opera anche in Italia c’è: “twittate, scatenate una “social storm” perché possiate vederlo anche voi”.
Fidatevi di noi, non ve ne pentirete. Il grande cinema vale un piccolo sforzo e, soprattutto, questo film di guerra in cui i protagonisti non sono gli eroi, gli assassini a fin di bene (quale poi?), le armi, ma corpi, anime, cuori e la più grande follia collettiva che l’umanità abbia prodotto e reiterato senza sosta fin dalla notte dei tempi.

E allora, Paul, ti aspettiamo in Italia. Taggate @kajakimovie, usate l’hashtag #kilotwobravo e su Facebook cercate Kilo Two Bravo.


Guarda il trailer:

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