Se non c’è integrazione è colpa nostra

Dopo Parigi truppe televisive hanno invaso i quartieri della Capitale alla scoperta di futuri jihadisti o del disagio degli abitanti italiani che convivono “con lo straniero” da diversi anni. Di canale in canale sono tantissimi i servizi tv incentrati o sulla paura o sull’intolleranza o sull’esatto contrario (il coraggio di dire no al terrorismo per esempio). Il martellamento mediatico fa sfuggire però la visione complessiva delle cose: le persone convivono col vicino di un’altra cultura, in città, da decenni. E vanno avanti benissimo. Il problema è che però non se ne parla. Uno degli esempi perfetti per questo corto circuito è il rione di Tor Pignattara dove ci sono diverse moschee, la comunità islamica è soprattutto del Bangladesh e il venerdì di preghiera è uno dei più seguiti. Anche perché la moschea dei Parioli non se la fila nessuno. Troppo lontana.

Però questo non ve lo raccontano.

Non vi raccontano in questi giorni delle mamme della Scuola Elementare Carlo Pisacane, italianissime, che l’anno scorso cacciarono un folkloristico Mario Borghezio  mentre gridava a due passi da quelle aule dove bambini italiani e non ogni mattina imparano qualcosa. Non vi raccontano le tante storie di quartiere dove gli “ultimi” diventano eroi. Perché fuori dal centro storico della Capitale tutti insieme ci si aiuta, vivendo allegramente e orgogliosamente da ultimi. Non vi raccontano le voci di chi va al bar la mattina, beve il buon caffè di Khalid e si ferma la sera con lui a vedere la partita della Roma. Senza paura. Senza pregiudizio.

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Non vi raccontano la vita di quei quartieri, reale, dove è più probabile che scoppi un litigio per il derby piuttosto che per il credo religioso differente. La colpa è nostra. Di noi giornalisti e di voi. Già voi, perché ieri a Roma, in piazza Santi Apostoli mi aspettavo molti più italiani che musulmani. C’erano singole persone ma i collettivi universitari e movimenti che fanno tante serate sui curdi e Kobane non stavano lì. Non pervenuti. Non era una manifestazione per i musulmani, era un “Not my name” che doveva essere a nome di tutti. Non deve essere il mondo islamico a condannare fermamente l’Isis, deve esser il nostro mondo. Perché lo è già nostro, insieme. Questo però non lo raccontiamo mai. Non ascoltiamo la parte più bella delle nostre città: quella che fa paura davvero a chi oggi ci vuole spaventare.

(foto copertina ANSA/ALESSANDRO DI MEO)

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