Perché il dopo attentati a Parigi sarà come prima degli attentati a Parigi

Dopo gli attacchi a Parigi si può tranquillamente affermare che non sia successo niente d’imprevedibile e anche che ora non esiste una «risposta» a quegli attacchi che non fosse possibile prima. Di più, non esiste una risposta risolutiva a un problema che non è quello, che pur ci tocca molto da vicino, degli attacchi a Parigi, ma quello più vasto e complesso del deteriorarsi della situazione internazionale dopo il 9/11.

L’ISIS è un’organizzazione brutale ispirata da un fanatismo religioso di stampo medioevale che è cresciuta nel vuoto creatosi dall’assenza di uno stato funzionale in vaste zone dell’Iraq prima e della Siria poi. La Francia, con il governo Hollande in particolare, ha bombardato in Libia e Siria, sostenuto il governo golpista di al Sisi in Egitto che è andato al potere facendo strage di musulmani moderati, schiantato il tentativo di costituire un califfato islamista in Mali, armato le monarchie del Golfo, sostenuto innumerevoli autocrazie africane poco tenere con i movimenti radicali e ha persino assistito impassibile alla pulizia etnica nella Repubblica Centrafricana, un paese dove mai c’erano state tensioni interreligiose, dove i «cristiani» hanno cacciato i musulmani al completo dalla capitale e dalla parte orientale del paese. Una storia che ha avuto così poca risonanza che probabilmente nemmeno nel califfato ne hanno saputo qualcosa, ma sicuramente non sono sfuggite le le prese di posizione «laiche» contro l’estremismo domestico e ancora meno le bombe made in France piovute sulle loro posizioni in Siria, contro le quali l’attacco a Parigi rappresenta la risposta tipica del califfato e di tutte le formazioni d’ispirazione qaedista da che si conoscono. Risposte che hanno mietuto ormai migliaia di morti in molti paesi..

Musulmani o no, da un’organizzazione con le caratteristiche dell’ISIS è normale attendersi reazioni del genere, che infatti erano attese. Anche in Kenya gli Shabaab somali hanno fatto più di 500 vittime per vendicarsi dell’intervento dell’esercito di Nairobi nel Sud della Somalia, fondamentale per sottrarre loro il controllo della regione. E attacchi simili si sono visti all’opera dall’India all’Africa fino all’Europa senza soluzione di continuità negli ultimi anni, intervallati dai più tradizionali attentati con l’esplosivo, impiegati ad esempio per colpire Londra e Madrid all’inizio del secolo, con bilanci di sangue non dissimili da quello di Parigi. L’organizzazione è cresciuta negli anni compiendo migliaia di attacchi e attentati prima in Iraq e poi nel resto del Medio Oriente. Pratiche abbracciate fin da subito già dai talibani sloggiati dal potere nel 2001 e ampiamente impiegate prima in Pakistan e poi in molti altri paesi.

Gli attacchi di Parigi non devono quindi essere considerati particolarmente eccezionali, lo diventano naturalmente perché hanno colpito vicino e hanno colpito persone alle quali ci sentiamo vicine nei costumi e nei sentimenti, nelle quali ci immedesimiamo. Non deve stupire, e non è nemmeno strano o riprovevole, che si dia più attenzione agli attacchi di Parigi che a quelli dei Boko Haram in Nigeria. Con i parigini ci identifichiamo, a Parigi ci andiamo, mentre dei villaggi del Nord della Nigeria o delle scuole e dei centri commerciali del Kenya e di chi li anima sappiamo poco, e poi viene naturale pensare prima e più intensamente al pericolo più vicino e incombente.

Tutto questo però non rende i fatti di Parigi davvero straordinari e nemmeno può farli ritenere uno spartiacque tra un prima e un dopo che probabilmente invece si assomiglieranno tantissimo, e non solo perché non è pensabile che ora qualcuno tiri fuori dal cilindro un’idea risolutiva per rimuovere quell’ISIS, che universalmente è considerata un tumore e contro la quale sono già schierate risorse apparentemente sufficienti. L’idea risolutiva c’è già, ed è quella di annientare l’organizzazione, su questo che un notevole unanimismo. Bisogna infatti ricordare a quanti sollecitano risposte militari, che contro l’ISIS sono attualmente e attivamente impegnati: l’esercito siriano, buona parte dei ribelli siriani, tutti i curdi, ogni genere di milizia non sunnita, l’Iraq, l’Iran, la Giordania, il Libano, l’Egitto, La Francia, La Gran Bretagna e due superpotenze come Stati Uniti e Russia. In più ci sarebbero anche i paesi del Golfo e la Turchia, sull’impegno dei quali è lecito dubitare, e una pletora di paesi che forniscono piccoli contributi militari o grossi contributi di natura diversa.  Alla guerra all’estremismo di stampo qaedista collaborano inoltre con estrema durezza altre due potenze come Cina e India e tutti i governi d’Asia e d’Africa ancora capaci. L’idea che il nostro paese sia, nelle parole della povera Fallaci fatte proprie da Pier Luigi Battista:«avamposto comodo strategicamente perché offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà»; è l’esempio di una sciocchezza caricaturale buona per i celoduristi tra i lettori e per i guerrieri da tastiera. Non solo perché in realtà l’Italia contribuisce già moltissimo sia allo sforzo bellico che a quello logistico e sociale, che l’Europa e l’Occidente in generale si sono accollati con la serie d’interventi dal 2001 ad oggi.

È poi da considerare che l’idea di risolverla con le bombe porta dritta alla collaborazione con la Russia per una soluzione in stile ceceno. Già l’intervento «chirurgico» su Kobane dimostra che la presunta prudenza americana si risolve nella distruzione di intere città, con i bombardamenti di russi e siriani va anche peggio e sul terreno la crescente fornitura di armi pesanti a lealisti e ribelli conduce allo stesso esito: le città siriane coinvolte nel conflitto saranno rasate o quasi. Il che significa ancora più profughi e tempi lunghissimi per il loro rientro, che più s’allunga il tempo e meno diventa probabile. Non è che americani e russi siano particolarmente spietati, è che questa è la guerra moderna, cosiddetta asimmetrica, e gli americani e i russi fanno la guerra cercando di non perdere soldati americani e russi. Non sono certo disposti a sacrificare i loro uomini per mettere in salvo i civili o ridurre il numero delle vittime e delle distruzioni in altri paesi, anche perché quando cominciano a tornare i cadaveri in patria il consenso per la guerra precipita, non solo nei paesi afflitti da «buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà». Bush non avrebbe ordinato di nascondere le bare dei caduti e Putin non farebbe lo stesso in paesi che sono considerati coraggiosissimi nell’opinione dei più e che nei fatti si sono sempre dimostrati pugnaci ben oltre la media. Il problema non è colpire militarmente, semmai è proprio che si è fatto troppo affidamento sul colpire militarmente, spesso da lontano e all’ingrosso, invece di mettere mano alle contraddizioni locali e globali cercando di dirimerle o di affrontarle in maniera dedicata a seconda delle diverse caratteristiche e dei diversi teatri.

Poi c’è che L’ISIS non è solo in Siria e in Iraq e che riportare la Siria alla quiete e alla stabilità, e ci vorranno parecchi anni, non risolverà la questione come non l’ha risolta la cacciata dei talibani dall’Afghanistan. La questione, messa nei termini della guerra all’ISIS è sicuramente malposta, anche se è questa la narrazione che si è riaffacciata nell’ultimo anno dal mainstream, nonostante l’evidente fallimento della precedente «War On Terror». Dichiarata esaurita proprio dagli americani perché considerata un approccio fallimentare.

Non si può dimenticare quell’approccio e quel che ne è scaturito dopo l’undici settembre del 2001, quando per fare la guerra all’al Qaeda rintanata in Afghanistan si decise d’invadere il paese e in seguito d’invadere pure l’Iraq, trascurando così il destino dell’Afghanistan e innescando in Medio Oriente un domino che ha portato alla perdita di controllo di numerosi governi su vastissime parti del loro territorio. Ma non è stata solo la guerra al terrore a determinare il fallimento di un numero di stati sempre maggiore, aprendo spazi ad estremismi che diversamente non avrebbero potuto godere di tali zone franche nelle quali crescere e prosperare.

Nel periodo della guerra fredda non esistevano stati falliti, nemmeno tra i paesi non allineati. Non esistevano perché la competizione tra i due blocchi sconsigliava e impediva che anche uno dei paesi non allineati potesse cadere senza essere raccolto da una potenza interessata, ma soprattutto perché l’intero periodo fu dominato dalla competizione tra due ideologie laiche, una competizione tale da mettere in secondo piano ed eclissare le pretese dei religiosi e persino quelle dei nazionalisti in buona parte dei paesi del mondo. Con il crollo delle cortina di ferro questa competizione è finita e con essa è finita la compressione delle rivendicazioni nazionaliste e religiose, che con il passare del tempo sono esplose con tutte le loro notissime e tragiche conseguenze, persino in Russia, dove il clero ortodosso è tornato ad essere parte integrante e funzionale di un nazionalismo russo sempre più violento e incline al fanatismo reazionario.

Se la dissoluzione della Jugoslavia ha attivato il tutoring diretto e interessatissimo di Europa e Stati Uniti, non così si può dire della Somalia, l’altro stato fallito negli anni ’90, dove l’intervento di Restore Hope si risolse in un disastro a causa di una competizione interna alla stessa alleanza occidentale, intervenuta per «salvare» il paese dalla fame e dall’anarchia. Un errore ripetuto poi da Washington sollecitando nel 2006 la guerra per procura da parte dell’Etiopia contro il governo delle Corti Islamiche che si era consolidato a Mogadiscio, d’ispirazione musulmano-moderata. Un altro intervento che ha nutrito l’emergere degli al Shabaab, l’al Qaeda locale, e di fatto le ha consegnato vaste zone del paese per anni. Prima del 2000 il qaedismo e gli estremismi variamente islamici potevano contare su pochissimi posti sicuri, principalmente in Afghanistan, dopo il 2001 si sono progressivamente aperte per loro vaste porzioni dell’Iraq, della Siria, dell’Egitto, della Libia, della Somalia e di numerosi altri paesi africani della fascia sahariana e sub-sahariana, quasi un terzo del continente, anche se per lo più si tratta di un territorio poco o niente infrastrutturato e composto per lo più di deserti e zone semidesertiche. Ed è lì, come nelle parti meno popolate e controllate di Iraq e Siria, che sono cresciuti gruppi come Boko Haram, al Shabaab e Aqmi, l’al Qaeda del Maghreb.

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