Papa Francesco e la “mini enciclica” che sferza la Chiesa italiana

C’è tutto quel che è recentemente successo nella Chiesa, italiana e mondiale, nel discorso che Papa Francesco ha tenuto nel duomo di Santa Maria del Fiore, a Firenze, in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale: otto pagine e quarantacinque minuti che viene già definito “una mini-enciclica” per la forza, l’importanza delle prese di posizione, la potenza delle argomentazioni del Pontefice dirette, per nome e cognome, alla Conferenza Episcopale Italiana; un discorso che gli esperti internazionali già chiamano “barn-burner”, “di impatto incendiario”, più o meno. E sì, perché il monito che il Papa rivolge ai vescovi italiani è di quelli diretti al cuore.

PAPA FRANCESCO E LA “MINI ENCICLICA” CHE SFERZA LA CHIESA ITALIANA

Parliamo della stessa conferenza che il Pontefice sta provvedendo, lentamente ma progressivamente, cambiando con i mezzi che il pontificato gli mette a disposizione: ultima, ma non ultima vicenda, quella della nomina degli episcopati di Palermo e di Bologna, dati in appannaggio a due sacerdoti definiti “preti di strada”: Corrado Lorefice a Palermo e Matteo Zuppi. Nomine ben distanti dalle rodate pratiche curiali che vedevano in corsa per le cattedre di questi episcopati dei prelati ben più blasonati di sacerdoti semplici: questa, però, è la nuova chiesa di Papa Francesco, in cui “il pastore deve avere l’odore delle pecore” e in cui, ben di più, “anche il gregge ha un suo fiuto”, e che il pastore, a volte, deve saper seguire il suo gregge invece che pretendere di guidarlo. E lo dice, chiaro, il Papa.

 Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.

Un convegno  che per Francesco è solo il nuovo appuntamento dello stile che più gli è caro: quello della “sinodalità” su cui ha intenzione di far camminare la Chiesa, arrivando anche a mettere in discussione, a ridiscutere, il ruolo del Papato; un convegno organizzato dalla Conferenza Episcopale Italiana, un dossier problematico, una spina nel fianco nel pontificato di Bergoglio.

L’ultimo episodio è quello che è stato oggetto dell’ultimo scandalo Vatileaks, di cui molto si sa sui soggetti che l’hanno animato (Francesca Chaouqui, la comunicatrice – public relations manager – esperta finanziaria; e monsignor Vallejo Balda, entrambi membri delle commissioni pontificie per la riforma delle strutture economiche), e meno si è riflettuto sulle implicazioni politiche di ciò di cui questi scandali parlavano: “Avarizia”, di Emiliano Fittipaldi, fa i conti in tasca all’Ospedale Bambino Gesù di Roma, negli ultimi anni al centro degli scontri di potere della Conferenza Episcopale Italiana; e, scrive ancora Giacomo Galeazzi su Vatican Insider, proprio dai libri e dalle carte trapelate si vede un Papa “indaffarato con bolle di consegna, fatture per lavori interni e preventivi di forniture davanti a una spesa corrente fuori controllo in Vaticano”. Un pontefice che amministra la Chiesa, sopratutto la Chiesa italiana, tornando ad essere prima di tutto il Vescovo di Roma.

Francesco sa che l’ipocrisia di nascondere la polvere sotto il tappeto o di occuparsi dell’alto ignorando quello che accade in basso vanifica l’effetto della predicazione. L’esempio vale più di qualunque parola e la forma è contenuto. Specialmente quando amministrare in maniera scorretta o spregiudicata le finanze o concedendosi lussi «da faraone» si disorienta e allontana il popolo di Dio. Francesco agisce da pastore saggio. È arrivato sul soglio di Pietro dopo il default d’immagine e di credibilità causato dal boicottaggio e dalle difficoltà provocate alle riforme del suo Predecessore dalla casta ecclesiastica che aveva danneggiato pesantemente la fiducia della gente verso la Chiesa. Papa Bergoglio lo sa e non dà nulla per scontato.

Sono due le “tentazioni” che il Pontefice indica come mali da evitare proprio alla Chiesa Italiana. Il primo è “il pelagianesimo”.

Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.

Tornano in mente le discussioni del sinodo della Famiglia in cui proprio dal circolo animato dai vescovi italiani (fra cui Angelo Bagnasco, presidente della Cei) venne una delle intuizioni più aperturiste: “Il Papa approfondisca la natura comunionale o medicinale dell’eucarestia”; posizione poi scavalcata, ulteriormente, dalla posizione tedesca che ha aperto ad una procedura di discernimento “caso per caso” sotto la guida del vescovo. Una chiesa, dice il Papa, poi, che può e che deve cambiare, che deve essere “semper reformanda”, termine valorizzato dal Concilio Vaticano II per la chiesa cattolica e mutuato dalla riforma protestante, visto che il motto completo è “Ecclesia reformata semper reformanda” e che è posto alla base, nel 2017, delle celebrazioni per il cinquecentenario dell’affissione a Wittemberg delle famose “tesi luterane”. Non male ribadirlo davanti alla Chiesa Italiana per il Pontefice, accusato di “non essere cattolico” dagli ambienti più conservatori del cattolicesimo, che pone il dialogo ecumenico con protestanti e valdesi, che ha proposto una data unica per la Pasqua a tutte le confessioni cristiane.

 

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Un Papa che dà l’accesso al magistero ufficiale persino al “cristianesimo semplice” di Don Camillo, opposto alla “seconda tentazione”, quella dello gnosticismo, del cristianesimo fatto di pensieri logici e chiari che “dimentica la carne del fratello”.

Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.

E in questo “fanno fede”, si potrà dire, i tre oratori che hanno preceduto il discorso del Papa: la coppia risposata dopo l’annullamento in Sacra Rota delle precedenti unioni; l’atea convertita; il  giovane migrante divenuto sacerdote.

Storie di persone, parti vive della Chiesa, valorizzate davanti al Papa delle marginalità e delle porte aperte, dell’ospedale da campo. “Ai vescovi” dice il Papa, “chiedo di essere pastori: “Niente di più, pastori. Sia questa la vostra gioia. Puntate all’essenziale”. Quella di una Chiesa italiana – non universale, questa volta, italiana – che sia diversa è, per Papa Francesco, una visione, un sogno.

Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà

“Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento”, ha detto il Papa, “quanto un cambiamento d’epoca”. Un’epoca in cui il Pontefice, prima di andare a celebrare la messa nello stadio Artemio Franchi di Firenze gremito da 40mila persone, va a pranzo alla messa dei poveri alla Caritas. 

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