Renzi difende e blinda la manovra. Solo ritocchi. Ma Bersani e la minoranza PD non strapperanno

C’era già chi immaginava il “Patto del sigaro” (cubano) tra Renzi e Bersani sulla manovra, dopo il regalo del premier all’ex segretario Pd nel corso della riunione dei gruppi di Camera e Senato sulla legge di Stabilità. Un “Romeo & Julieta” che il presidente del Consiglio aveva comprato nel viaggio a L’Avana per il leader della vecchia Ditta. Non basterà certo per siglare la “pax” al Nazareno. Ma i toni soft del leader della minoranza dem e dei dissidenti lasciano pochi dubbi su quello che sarà, alla fine, il comportamento della sinistra interna in Aula. Nessuna voglia di strappare da parte dei bersaniani sulla legge di Stabilità. Soprattutto se Renzi blinderà il testo con la fiducia.

GUARDA L’INTERVISTA A PIER LUIGI BERSANI: «MANOVRA? CAMBIARE TETTO CONTANTE. COSE BUONE, MA SI LASCI MARGINI AL PARLAMENTO»

Quel che è certo è che il premier non abbia alcuna intenzione di cambiare gli assi portanti della manovra. Le accuse della minoranza sul tetto al contante portato a 3mila euro e sull’assist possibile agli evasori? Le contestazioni sui tagli alla Sanità e le critiche, poco gradite, di Chiamparino? Non importa, per Renzi non si torna indietro, non si cambia. Così come sull’abolizione di Tasi e Imu su prima casa e terreni agricoli, al di là dei proclami sulla progressività mancata, sbandierati dalla sinistra interna del partito. «Non si può tornare alla sinistra che dice “anche i ricchi piangano”: Io non condanno il mio partito al suicidio. Si faccia il congresso e si veda chi è in maggioranza», è stato il passaggio più duro nel discorso (insolitamente letto da un testo scritto) del premier.

Non ci saranno quei margini richiesti da Bersani affinché il Parlamento possa modificare il provvedimento. O meglio, se qualcosa cambierà, saranno soltanto aspetti minori. Tradotto, c’è l’apertura sulla proposta del centro studi di Bersani e Vincenzo Visco, Nens’, sulla fatturazione elettronica degli scambi intermedi legati al contrasto dell’evasione dell’Iva. Con la premessa, però, che sarà «lo Stato a fare gli incroci tra i dati». E per cercare di ricucire con le Regioni in rivolta, lo stesso Renzi ha rivendicato «entro 7 giorni faremo un decreto per salvarne i conti dall’intervento della Corte dei Conti». 

MANOVRA, RENZI APRE A MODIFICHE. MA SOLO PER NODI NON CENTRALI

L’impianto centrale del provvedimento, però, non verrà intaccato.Non è un caso che Alfredo D’Attorre, che aveva legato la sua permanenza nel partito alla possibilità di cambiare il provvedimento, abbia annunciato nel corso della riunione l’intenzione di lasciare il partito, insieme al lucano Vincenzo Folino e al filosofo Carlo Galli. Niente di nuovo, dato che gli stessi fedelissimi del premier lo consideravano da tempo ormai, di fatto, fuori dal partito. E come lo stesso premier poco digerisse le sue polemiche: «Devo tornare il vero Renzi, riprendermi il partito e infischiarmene dei D’Attorre e dei Fassina», si era sfogato con Repubblica Renzi lo scorso giugno, dopo i risultati non esaltanti di Regionali e amministrative. Dopo le uscite di Civati e Fassina, finiti nel silenzio e nel limbo – o quasi – dopo l’addio al Pd, l’ha accontentato anche “l’ultimo dei dissidenti” ancora in bilico. Come aveva anticipato Giornalettismo, D’Attorre è ormai pronto a entrare nel gruppo parlamentare unitario (si fa per dire, dato che Civati non ci sarà, ndr) della sinistra antirenziana. Un progetto che sarà lanciato sabato 7 novembre al teatro Quirino e al quale prenderanno parte anche il gruppo di Sel alla Camera, Fava e altri ex dem come Monica Gregori e lo stesso Stefano Fassina, possibile candidato della sinistra-sinistra alle prossime amministrative di Roma Capitale. Per Renzi, però, da quella parte non c’è spazio. Da mesi va ripetendo come a sinistra del Pd non ci sia posto e come il suo partito sia l’unico argine contro l’avanzata di M5s e Lega. Tanto da bollare come “sogno onirico” qualsiasi velleità dei fuoriusciti. «Per Renzi, in realtà, è la sinistra che non esiste», ha replicato D’Attorre, convinto che anche altri «nel medio termine, lasceranno» il Nazareno.

GUARDA L’INTERVISTA A D’ATTORRE

Poco o nulla sembra importare al premier. Così come ha allontanato le accuse di aver spostato a destra l’asse del Pd, ora “assaltato” dalle truppe di Verdini (e di quel che resta dell’alfaniana Ncd) che spingono per portarlo sui binari del Partito della Nazione«Il più grande afflusso arriva da Sel», non dall’ex sodale del Cav, si è difeso Renzi. Al contrario, come si mormora tra i corridoi in Transatlantico, se c’è una cosa che il premier ha poco digerito sono state le accuse del governatore piemontese Chiamparino: «Sta rispettando il suo ruolo istituzionale», hanno spiegato dalla minoranza. «In realtà è il solito giochetto di Chiamparino e Fassino con Conferenza Stato-Regioni e Anci. Qualche critica, prima della resa incondizionata», hanno replicato da Sel.

«NON SI PUÒ NON VOTARE LA LEGGE DI STABILITÀ…»

Ora la minoranza presenterà, forse giovedì, i suoi emendamenti (il 7 scade il termine per la presentazione in commissione, ndr). Ma l’impressione è che nessuna intenda immolarsi per «una causa che non porterebbe da nessuna parte». Senza dimenticare come, si spiega alla Camera, sia difficile far comprendere le contestazioni sulle tasse all’opinione pubblica e all’elettorato.

«Quali richieste di modifica presenteremo? Riguarderanno il tetto all’uso del contante, gli interventi a favore del Mezzogiorno, fino al fondo povertà e alla sanità. Ma non solo», spiega Paolo Corsini, uno dei senatori che con Miguel Gotor protestò già sul DDL Boschi. Probabilità di incassare qualcosa? «Vicina allo zero», ammettono però, sconsolati, alcuni parlamentari della sinistra interna, compreso un bersaniano di rango. E allora, perché dare il proprio sostegno? «La legge di Stabilità non si può non votare e condividere. Altrimenti si esce dal partito», è la posizione di una deputata dem della minoranza. Riassuntiva di un sentimento (quasi) generalizzato. Anche perché al Senato, nel caso di defezioni, c’è sempre la stampella di Verdini a blindare il provvedimento, nonostante i numeri precari della maggioranza. Dopo l’appoggio alle Riforme costituzionali, a Palazzo Madama l’ex plenipotenziario azzurro e la sua truppa sono ormai pronti a pesare il proprio sostegno anche su giustizia e Fisco. Dalla minoranza ne sono consapevoli: inutile rompere, i numeri sarebbero comunque garantiti. E allora, meglio provare a cambiare qualche dettaglio. E le accuse di Bersani sulla manovra copiata da Berlusconi? Trasformate in una  semplice richiesta di «lasciare margini alla discussione delle Camere». E nella richiesta, flebile, di poter «modificare il limite sul contante» . Un punto, però, che Renzi non toccherà.«Dimostratemi una correlazione tra l’aumento della soglia e la crescita dell’ evasione e cambierò il provvedimento», ha accusato il premier. Convinto anche che per le Regioni le polemiche non reggano. Così come sulle tasse: «L’82% dei proprietari di prima casa sono pensionati, dipendenti o disoccupati. Si può dir tutto, ma non che togliere la Tasi aiuti i più ricchi». O sulla Sanità.

RENZI DIFENDE LA MANOVRA E ATTACCA, I BERSANIANI CAUTI –

La minoranza, seppur perplessa, è rimasta in attesa durante l’assemblea, con Bersani e Speranza lontani, nelle retrovie. Qualche intervento critico. Ma, al di là dei fuoriusciti, nessuno sembra voler alzare i toni dello scontro. Anche per evitar di spingersi troppo avanti. Così, gli stessi commenti alla relazione si adeguano. L’ordine dai vertici bersaniani è partito: vada bene la discussione, ma rompere non è possibile. Altro che attacchi sulla manovra in stile Cav, come aveva evocato Bersani. Come sull’Italicum, sul Jobs Act, sullo Sblocca Italia e sulle riforme, la “resa” – più o meno onorevole – è già pronta. Ironico, dopo aver ricevuto il sigaro “cubano” da Renzi, Bersani ha replicato di non fumare più neanche toscani. Ma l’impressione è che ad evaporare e andare in fumo, al di là di qualche dichiarazioni mediatica, sarà ancora una volta la resistenza della minoranza Pd.

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