Festival di Venezia, Everest: se un regista si ferma prima della vetta – RECENSIONE

EVEREST, IL FILM –

A Baltasar Kormàkur devono essere tremate le gambe. Anche più che al coriaceo e stoico Jason Clarke, che interpreta l’alpinista realmente esistito Rob Hall, a capo di una delle spedizioni che, dagli anni ’90, ha portato in cima al mondo, sull’Everest appunto, persone normali in cerca di imprese eccezionali. Devono essergli tremate le gambe perché inaugura Venezia 72, con un’opera fuori concorso, dopo il Gravity di Alfonso Cuaròn e Birdman di Alejandro Gonzàlez Iñarritu, capolavori sorprendenti e rivoluzionari.

everest trailer

EVEREST, LA RECENSIONE –

Ecco, ve lo diciamo subito, non c’è gara. I due messicani staccano decisamente il 49enne cineasta islandese, autore del geniale 101 Reykyavik nel 2000 come del cialtronissimo e riuscito action hollywoodiano Two Guns – con “I cani sciolti” Mark Wahlberg e Denzel Washington -, anche per la differenza strutturale dei loro lungometraggi. Fortemente alla ricerca di un’ottica autoriale i primi due, con il genere piegato alla ricerca stilistica, formale, emotiva per arrivare oltre, il terzo, invece, ci tiene solo a portare a casa il più classico dei drammoni all’americana. Se in Gravity e Birdman la rivoluzione era di contenuti, di visione e di scrittura, qui invece si punta sulla solidità di un modello antico se non consumato, ma portandolo nell’inusuale (ma non certo inedita, sul grande schermo) alta montagna.

Kormàkur, insomma, si aggiudica un’ampia sufficienza per aver domato con la macchina da presa e gli effetti speciali e un ottimo 3D quelle catene montuose sconcertanti e (pre)potenti, ma non l’eccellenza perché non sa portarci davvero dentro quelle spedizioni rischiosissime, esaltanti, devastanti. Già, perché come ci racconta Everest, prima del 1992, l’Himalaya e in particolare la sua vetta più evocativa (si pensava anche la più alta, poi si scoprì che il K2 lo superava) – che prende il nome da George Everest, icona dell’alpinismo – erano stati affrontati solo da professionisti e, in ogni caso, la percentuale di morte arrivava fino al 25%.

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Da più di 20 anni i campi base si sono aperti anche a dilettanti ben allenati e si è incorsi in tragedie terribili, come quella che spazzò via con ben 8 morti la spedizione congiunta di Scott Fischer (qui un Jake Gyllenhall dolente guascone) e Rob Hall (Jason Clarke). Sarebbe stato bello sentirsi la montagna addosso, avere la neve che sferzasse la faccia, capire, come invece succede leggendo il bel libro di Krakauer Aria Sottile (edito da Corbaccio in Italia e sì, è quel Jon Krakauer che scrisse Into the Wild), cosa porta uomini normali ed esperti scalatori ad errori clamorosi, a sentimentalismi letali o solo a rischiare tutto, anche una paternità in arrivo, per respirare quell’aria, vedere quel panorama, provare la gioia del sogno impossibile.

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EVEREST, LA MONTAGNA MALEDETTA –

Forse è tutto molto semplice, come ci dice Doug (John Hawkes, ottimo): “mi hanno aiutato dei bambini di una scolaresca a trovare i soldi per tornare qui. Arrivare in vetta è un modo per dir loro che i sogni impossibili esistono. E li puoi realizzare”. Anche a carissimo prezzo.

Ecco, quella scena, molto bella, rimane orfana. La scorgiamo ancora in una battuta di Josh Brolin, fisicamente messo a durissima prova ma non sfruttato abbastanza a livello interpretativo, poi è tutto scalate, tragedie, lacrime, bufere. Non poco, anzi abbastanza. Ma l’Everest, forse, meritava di più, meritava di essere ritratto come un immobile e imponente Moby Dick che decide, senza pietà, di punire la presunzione dei suoi Achab.
Ecco, in Italia si è parlato di Bianco, il prossimo film (speriamo) di Daniele Vicari. Su Walter Bonatti e la sua cordata più drammatica. E da quelle poche notizie trapelate, lì troveremo ciò che qui è mancato. Ma che comunque, tra le pieghe rarefatte di morti quasi assurde e movimenti sempre più difficili, qui intuiamo. E alla fine, un po’ di freddo dentro lo sentirete.

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