Cannes 2015, Il racconto dei racconti: Garrone lascia di stucco tutti | RECENSIONE

CANNES 2015, IL RACCONTO DEI RACCONTI –

Non fatevi ingannare dai tiepidi applausi della Sala Debussy nella prima proiezione stampa del primo film italiano in concorso qui a Cannes 68. E’ vero, sono stati sparuti e incerti. Ma non perché Il racconto dei racconti sia inferiore alle attese e neanche perché abbia deluso. No, come accade ai grandi film – e questo lo è, quasi nel senso letterale del termine -, ti costringono immediatamente alla riflessione, non ti suscitano quell’entusiasmo immediato e a volte bugiardo.

Matteo Garrone Cannes 2015
Matteo Garrone sul set de Il racconto dei racconti

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Quindi l’applausometro, una delle malattie festivaliere più stupide, lasciatelo stare. Questa volta conta ancora meno. Anche perché i titoli di coda son così belli che ti perdi nel goderteli e non ti ricordi di battere le mani.

Ecco perché l’altro esercizio infame dei festival – scrivere tutto e subito – nel caso di questo film è ancora più difficile e ingiusto. Perché Il racconto dei racconti è un oggetto cinematografico diverso e potente. Perché in Italia forse non abbiamo mai visto un’opera così e non tornerà facilmente. Perché la tecnica, l’amore per un’estetica barocca e allo stesso tempo frutto della cruda bellezza di un paesaggio – quello pugliese -, così come le prove attoriali sono di altissimo livello. E Matteo Garrone, forse definitivamente, si conferma un maestro, un artista capace di dar forma a ciò che pensa, sogna, vampirizza, in questo caso da quel geniaccio insolente di Basile e da Il cunto de li cunti e, superficialmente, da quel Game of Thrones che, forse, qui, è poco più di una stampella creativa che altro.

IL RACCONTO DEI RACCONTI, LA RECENSIONE –

Allora perché è così difficile scrivere “capolavoro”? Perché la soddisfazione di vedere un autore italiano e tanti professionisti della creatività attorno a lui costruire tre affreschi mirabili, intrecciandoli tra loro, non porta, ora, dopo quell’iniziale disorientamento, a sentir vibrare ogni parte di sé? Come succede quando vedi qualcosa che sai entrerà nella storia del cinema. E nella tua.

I motivi sono almeno un paio. Il primo è che Il racconto dei racconti è un percorso narrativo e visivo che ha bisogno di giorni per sedimentare negli occhi, nella testa, nel cuore di chi guarda. Il secondo è che lo spettatore finisce per rimanere sempre un paio di passi indietro. Un po’ stupito e abbagliato dalla bellezza delle scenografie di Dimitri Capuani e dei costumi di Massimo Cantini Parrini, di sicuro attratto da momenti di regia di bellezza assoluta, dalla scrittura rotonda e sicura di Chiti, Albinati, Gaudioso e il regista stesso. Tutto è troppo bello, perfetto, per essere sangue e merda, sesso e cialtroneria, passione ed emozioni. Già, chi lo conosce sa che il napoletano Giambattista Basile, con la sua prosa popolare, tutta umorismo e umori, con le espressioni “in culo al mondo” e “cacarella”, è altro. Quel genio, depositario dell’istinto fiabesco dell’Europa intera, capace di creare mondi e relazioni speciali perché umanissime, disegnatore di caratteristi geniali, era un bardo impetuoso, rutilante, grottesco. E in Garrone quest’anima beffarda non la ritrovi. In quest’opera elegante non c’è, se non nell’eloquio e nelle espressioni di Vincent Cassel, nel beffardo e fragile Toby Jones, nella sorprendente Bebe Cave, principessa cazzutissima e capace di un gran finale (che peraltro riscatta donne che qui non escono benissimo), in Shirley Henderson, semplicemente straordinaria nell’impersonare l’ingiustizia nobile della vecchiaia, in una festa matrimoniale struggente. Quello che il cineasta infonde nei suoi bravi interpreti, però, non lo porta nel film. Forse anche per la musica calligrafica di Desplat, che non aiuta a sciogliere l’opera e gli spettatori e che diventa viva solo quando abbandona la melodia per percussioni e suoni sghembi. Ma succede troppo raramente.

Stacy Martin Il racconto dei racconti
La splendida Stacy Martin nell’episodio “Le due vecchie”

MATTEO GARRONE E GIAMBATTISTA BASILE –

Difficile dire dove si annidi l’imperfezione de Il racconto dei racconti. Forse proprio in quella calligrafia che non gli fa trovare un tono deciso, emotivo e narrativo. Eppure è anche la sua forza: non cerca scorciatoie, non prova a prendere a pugni lo spettatore. Rischia però di ipnotizzarlo. Forse doveva essere una serie televisiva, Basile e Garrone meritavano un respiro più ampio, complesso. O forse bastava l’episodio La pulce a fare il film, senza una Salma Hayek deludente nell’atto meno incisivo del film o l’inseguimento del mito dell’eterna giovinezza nell’altro. In fondo streghe e circensi, regine ossessive e principesse dure a morire, vecchie allupate e re maniaci (che siano zoofili o erotomani) non possono essere così “puliti”. E quegli splendidi colori resi così bene dal regista dovrebbero essere più sporchi. Ma forse la verità è un’altra: di fronte alla semplicità delle fiabe e di un talento straordinario, un critico può anche essere inadeguato.

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