L’arrivo dell’Alieno sulla croisette / 1

E poi danno a me dell’alieno. Ok, vengo da un altro pianeta, ma Cannes supera tutti gli extraterrestri. Il barbone che chiede l’elemosina per fare la benzina alla sua Porsche, le donne diversamente abili nello scegliere gli abbinamenti di gioielli, vestiti da sera (anche alle 10 del mattino) e acconciature, i playboy un tanto al chilo sul lungomare, le file chilometriche per un film giapponese, il caffé gratis che non useresti neanche per il tuo autoveicolo del secolo scorso e che qui, perché gratuito, diventa più appetibile di una colazione al Gambrinus, sono tutti segnali evidenti di come per 12 giorni in questo luogo della Francia, tutto cambia, anche la scala dei valori etici ed estetici. E alimentari. A rimanere la stessa è solo la grandeur francese, ben fotografata dalla scelta di un film inaugurale che farebbe la sua (pessima) figura anche in una seconda serata di Rete 4. La tête haute non è un titolo, ma una speranza: quella di mantenere la testa alta invece di crollare in un sonno più ristoratore di un cinema televisivo e consolatorio ben fotografato da nonna Catherine Deneuve nella parte di una giudice minorile severa e affettuosa. Certo, dopo che l’hanno scorso ci hanno proposto Grace con Nicole Kidman, al peggio non può esserci fine. Però sarebbe stato bello un benvenuto migliore.

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Come sempre, però, Cannes è una prova di sopravvivenza di un popolo, quello cinematografaro, che qui trova un varco spazio-temporale in cui la crisi non è mai arrivata. In cui i ristoratori pensano di poter fare prezzi da padiglione giapponese dell’Expo e in cui tutti diventano più cattivi. E ora che ci sono i social, pure di più.

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Capisci che il cinema italiano è in crisi quando (quasi) tutte le generazioni di giornalisti, anche quelle che si possono permettere un albergo pagato dal quotidiano per cui scrivono e non un appartamento di 40 metri quadri soppalcato in cui vivere in sei, prende un aereo di una compagnia low cost. Roba che se Lubitz avesse avuto un altro datore di lavoro, avrebbe creato nel settore una bolla di nuovi impieghi – precari per la maggior parte, ovvio – a tre cifre. Forse costava meno affittare un charter con una colletta.

Arrivati, la scala sociale dei festivalieri torna quella di sempre. E lo capisci dalle passeggiate esplorative dei più giovani. Oddio, più giovani. Quarantenni che vengono qui a vivere in condizioni infami che un tempo erano naive e ora solamente sulla soglia di una disoccupazione a targhe alterne. Ancora con t-shirt ammiccanti ma con lunghe zone brizzolate inframezzate da spazi vasti di riflessione del cuoio capelluto. Ogni riferimento ad alieni realmente (r)esistenti è ovviamente casuale.

Difficile farvi capire quanto possa essere bello trovare, nella propria strada, il caffé Giulia. Una Quiche Lorraine a tre euro e cinquanta altrove sarebbe un prezzo folle, qui è la certezza di non morire di stenti. Tanto che alla signora che fa tutto in casa, pasta compresa, ti affezioni subito come una zia. E lei ti racconta delle sue vacanze a Lecce. Ed è subito famiglia. Ma lei ovviamente non ti fa lo sconto, al massimo ti tiene da parte un’insalata che potrebbe coprire il fabbisogno dell’Uganda. Non per la quantità, ma per il denaro che devi versare per acquistarla.

Difficile dirvi dell’entusiasmo di trovare Steak’n’Shake. Davanti al Palais del Festival, anzi al Casinò, un fast food in cui la carne non è dei tempi di Ingrid Bergman, protagonista con un sorriso da Milf del brutto manifesto di quest’anno. In cui i funghi sono veri. E persino buoni. E scoprire di poter pranzare e cenare e non digiunare per i primi tre giorni. Quasi impossibile, infine, confessarvi quel pudore nel nascondere pasta, pomodori pelati, crackers e scatolette di tonno che hai portato dall’Italia, per poter sopravvivere senza far compagnia al barbone automunito.

Qui, per quasi due settimane, proverò a raccontarvelo. Ma Krypton mi manca, potrei fuggire prima. Anche se dopo anni di purgatorio, l’autorevolezza di questa mia collaborazione con Giornalettismo – grazie direttore per la tua bontà con noi lavoratori extraplanetari, nonostante il permesso di soggiorno intergalattico non sia ancora arrivato – mi ha regalato l’accredito rosa. Cos’è? Uno dei posti più alti nella gerarchia degli accrediti. Arancione, giallo, blu, rosa, rosa con pastiglia, bianco e bianco soirée. No, non sono i colori che ha addosso la top model kazaka di fronte a me. Cioé sì, ha (anche) tutte queste fasce cromatiche addosso, più alcune sconosciute, soprattutto nella tonalità dell’abbronzatura. Sono anche le tonalità che teniamo appese al collo, ghetti che determinano la nostra vita qui. Con il rosa che mi ha regalato Giornalettismo, potrei non passare ore a fare la fila per pellicole che non sentirete forse mai nominare. Potrei persino dormire. Forse.

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