Italicum, l’ultima “resistenza” dei 38 dem. Ma Renzi non teme lo sgambetto nel voto segreto

La fedeltà alla Ditta non c’è più, il primo segnale verso il premier è stato lanciato. Pur ridimensionata, ridotta a poche decine di “resistenti“, la fronda dem più irriducibile sceglie la strada dello strappo sul primo voto di fiducia sull’Italicum, superato dal governo con 352 sì. In trentotto (36, più l’ex segretario Epifani e il capogruppo dimissionario Speranza, in missione) su un potenziale teorico di 120 deputati delle varie anime della minoranza Pd, decidono alla fine di uscire dall’Aula e non votare la fiducia alla riforma elettorale. Un passaggio al quale Matteo Renzi ha legato il destino dello stesso esecutivo.

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Italicum, la diretta del primo voto della legge elettorale
ANSA/ANGELO CARCONI

ITALICUM, LO STRAPPO DEI 38 DEM. MA L’OBIETTIVO È IL VOTO FINALE A SCRUTINIO SEGRETO…

Troppo pesante «la forzatura» della fiducia, le accuse arrivate dal nuovo corso, così come la decisione di blindare un testo «senza alcun rischio reale», ripetono dal Transatlantico i dissidenti dem. «Non potevamo votare anche questa». Nella fronda ribelle i nomi “pesano”: dall’ex segretario Pier Luigi Bersani all’ex premier Enrico Letta, passando per gli ex candidati alla segreteria Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati, fino a Rosy Bindi, Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. «Quanto è avvenuto oggi è una prima risposta importante. Vedremo adesso cosa succederà sul voto finale al provvedimento», azzardano fonti dem tra i corridoi di Montecitorio. Perché, al di là delle votazioni di fiducia sugli articoli della legge, più che blindati, è il passaggio finale a scrutinio segreto il vero obiettivo (di quel che resta) della sinistra del partito. L’unico possibile rischio per la maggioranza renziana.

Almeno in teoria, dato che – così come già avvenuto sul voto sulle pregiudiziali di costituzionalità e merito in casa renziana considerano certo un “soccorso azzurro” della corrente forzista pro-Nazareno, quella legata a Denis Verdini«Saranno almeno venti a votare a favore dell’Italicum», si calcola a Montecitorio. A meno che Berlusconi non decida l’Aventino, evitando un Big Bang palese nel gruppo parlamentare. L’ordine del senatore toscano resta quello di appoggiare il testo nel segreto dell’urna, senza esporsi troppo. Anche perché l’ex plenipotenziario di Fi è convinto che, dopo il flop azzurro previsto alle Regionali di fine maggio, lo stesso Cav sarà costretto a resuscitare la pax Nazarena. E come non ci sia nemmeno bisogno di forzare troppo. «Voteremo l’Italicum? Ma no. Renzi ha già i numeri. Non avrebbe molto senso», spiega un verdiniano doc. Ma il “salvagente” è pronto, al di là delle smentite e dei proclami di Brunetta sull’unità di Forza Italia

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IL DRAMMA DELLA MINORANZA PD –

Il vero dramma resta però quello della minoranza Pd, ancora una volta frammentata e divisa, in ordine sparso già sulla fiducia. Così come già avvenuto sul Jobs Act, lo schema renziano del “Divide et impera” (“dividi e governa”) riesce anche sulla fiducia alla legge elettorale. Questa volta ha le sembianze dei “50 responsabili” di Area Riformista, la corrente di minoranza più dialogante che si “scioglie”, di fatto, al primo scoglio, dopo un vertice notturno di oltre quattro ore.

Gli oltranzisti del gruppo non hanno digerito la decisione dei 50 di firmare un documento a sostegno della fiducia, seppur criticata: «Una scelta sbagliata, serviva maggiore rispetto per Roberto Speranza. A questo punto serve una riflessione nel gruppo», spiega a Giornalettismo Davide Zoggia. L’impressione è che la corrente appartenga ormai al passato, archiviata dopo le divisioni tra “lealisti” e “oltranzisti”. «Ar sciolta? No. C’è stata una forte spaccatura, ma ora dobbiamo capire come andare avanti», è più prudente l’ex responsabile organizzazione Nico Stumpo

In realtà, dall’ex ministro Cesare Damiano al pugliese Dario Ginefra, non c’è alcuna intenzione di seguire Bersani in quella che considerano una «deriva massimalista». Anche Francesco Boccia, tra i più critici in passato sul nodo dei capilista bloccati e sul possibile appoggio di Verdini, alla fine vota la fiducia al governo: «Ho rispettato la decisione assunta dal mio territorio. Certo, resta una ferita pesante nel Partito democratico. Un precedente che Renzi doveva evitare», spiega. La realtà, amara per il vecchio corso, è però che nel gruppo parlamentare dem la posizione di Bersani sia isolata. Almeno nel voto palese. 

L’ETERNO DILEMMA DELLE MINORANZE PD –

Non pochi, anche tra le stesse minoranze, restano dubbiosi sulla stessa scelta di radicalizzare lo scontro interno sulla legge elettorale: «Per me è una decisione poco strategica, poco comprensibile per la nostra stessa gente. La vera battaglia era sul Jobs Act, ma in quel caso Area Riformista ha fatto da stampella decisiva a Renzi», ammette a Giornalettismo una autorevole fonte Pd critica verso il segretario. L’impressione è che, al di là del voto segreto della prossima settimana, non ci sia alcuna prospettiva concreta per i prossimi mesi. Anche perché l’idea di creare gruppi autonomi è condivisa soltanto da Civati, Fassina e pochi altri nel Pd. Nemmeno presa in considerazione dai big democrat«Qui a Montecitorio è improbabile, fantapolitico. Saremmo soltanto una decina. Ben diverso sarebbe a Palazzo Madama, anche per il peso che avrebbe la scelta, considerati i numeri precari della maggioranza», spiega a Giornalettismo uno dei ribelli dem più a sinistra nel partito. Ma non sembra una via praticabile, così come quella scissione più volte allontanata«Dal Pd non ce ne andiamo, questa è casa nostra», ripete l’ala bersaniana e cuperliana del partito.

C’è chi guarda già alla prossima sfida al premier, su quel Ddl Scuola dove il governo Renzi potrebbe tentennare. Ma, al momento, l’unica prospettiva politica a lungo termine sembra quella di cercare di «creare le basi per il congresso del partito del 2018». Una data però ancora lontanissima: «Se questo è lo scenario, Renzi può stare sereno. Li ha già “umiliati” più volte, nei prossimi due anni li asfalta tutti», provocano coperti dall’anonimato dalla maggioranza. Anche perché non c’è nemmeno un leader che sembra in grado di competere con il premier, al di là delle ambizioni dello stesso Speranza. Tra i fedelissimi renziani non c’è grande timore nemmeno per un possibile sgambetto al premier sul voto finale all’Italicum, vero snodo della legislatura. Anche se, tra la fronda dei 38 ribelli, c’è chi sogna la vendetta sul premier. Un ammutinamento  “eterodiretto” dall’eterno avversario,  Massimo D’Alema, come si mormora in Aula: «Sono convinto che i numeri del dissenso aumenteranno…», spiega un ribelle.

Anche in quel caso, però, la possibilità che l’Italicum venga affossato sembrano fantapolitiche, numeri alla mano. Anche perché, se servirà, Renzi ha già in tasca il suo “salvagente”. Forse, non soltanto di stampo azzurro verdiniano. Perché, sono convinti in casa renziana, «per Grillo e il M5S l’Italicum è la legge perfetta». E non è un caso che non si sia vista un’opposizione così dura: «Una volta salivano sui tetti sulle riforme alla Costituzione, oggi sono assenti. Senza Aventino, una decina di voti potrebbero anche arrivare a sostegno…», azzardano dalla maggioranza renziana. Gli stessi pontieri Pd sono al lavoro per allargare il perimetro della maggioranza. Quanto basta per permettere a Renzi di blindare, una volta per tutte, la legge elettorale. Al di là della “resistenza dei 38” dem e dei rischi del voto segreto. 

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