Firme false, il caso Piemonte: Chiamparino e quella legislatura a rischio

28/03/2015 di Alberto Sofia

Sembra un paradosso, un fantasma che ritorna. Stesse le accuse, stessi i rischi per la Giunta regionale piemontese. Questa volta, però, a parti invertite. Era il 27 maggio 2014 quando Sergio Chiamparino trionfava alle elezioni Regionali, archiviando la stagione del leghista Roberto Cota, terminata con l’annullamento delle elezioni disposto dal Tar per la vicenda delle firme false. Non è passato nemmeno un anno di legislatura dalla vittoria del centrosinistra, ma l’incubo per il Pd regionale è già quello di dover tornare alle urne.

Marco Alpozzi - LaPresse
Chiamparino – Marco Alpozzi – LaPresse

Il motivo? Così come per il caso accertato delle firme false per accreditare una delle liste minori collegate all’ex governatore del Carroccio (“Pensionati per Cota”), sono ancora le irregolarità (presunte) nella raccolta delle sottoscrizioni a far tremare i vertici di casa Dem. In un partito, tra l’altro, frammentato tra correnti. Lacerato in una sorta di congresso infinito, non soltanto tra il nuovo corso e la sinistra interna. Ma anche tra le diverse anime che compongono la maggioranza: quella fassiniana, quella cattorenziana e quella degli “Ateniesi” (nata nel 2013 da un’associazione , Adesso! Torino, coordinata da Davide Ricca e e da un blog collettivo, ndr), definiti “renziani ortodossi”. E balcanizzato tra vertici regionali e torinesi, sullo sfondo del pasticcio che rischia di costringere Chiamparino al passo indietro. Con tanto di “rimpallo” sulle responsabilità.

Per il momento, da Roma sembrano voler restare in attesa, nel tentativo di nascondere un certo imbarazzo. Ma il caso, si mormora, ha creato non poche irritazioni al Nazareno. Timoroso di un remake indigesto dell’affaire Cota.

IL RICORSO DELLA LEGA NORD –

A far scoppiare il nuovo caso-firme era stata la denuncia presentata il 10 luglio scorso dalla consigliera provinciale del Carroccio Patrizia Borgarello, che aveva poi presentato ricorso al Tar piemontese. A finire sotto osservazione della Procura erano state oltre due mila firme depositate a corredo della lista maggioritaria del candidato governatore del centrosinistra, oltre a quelle del Pd collegate, di Torino e Cuneo. Secondo la denuncia leghista, un numero eccessivo di sottoscrizioni sarebbero state raccolte in un tempo troppo limitato. Senza dimenticare i dubbi sulla calligrafia simile e le firme non accompagnate dal numero della carta d’identità. Un ricorso poi accolto dal Tar lo scorso febbraio: secondo i giudici, sarà necessario stabilire se le sottoscrizioni raccolte a sostegno del listino «Chiamparino Presidente» siano state sufficienti per l’ammissione della stessa alle elezioni:

«L’indissolubile legame che lega questa lista a quelle provinciali a essa collegate, fa sì che, laddove la prima dovesse risultare illegittimamente ammessa alla competizione elettorale, anche le altre ne seguirebbero la stessa sorte, con inevitabile stravolgimento dell’esito elettorale», si leggeva nelle motivazioni con cui era stato accolto il ricorso.

Due erano stati i procedimenti “paralleli” aperti. Quello amministrativo, con il quale la Lega ha rivendicato l’annullamento delle elezioni. E l’inchiesta penale, per la quale erano finiti indagate sette persone: da nomi di rilievo come i consiglieri regionali Marco Grimaldi (Sel) e Nadia Conticelli (Pd), agli ex consiglieri provinciali di Torino Umberto Perna, Pasquale Valente e Davide Fazzone (responsabile organizzazione), oltre al presidente della Circoscrizione V Rocco Florio e il vice Giuseppe Agostino. L’accusa dei pm? Presunte irregolarità, in qualità di pubblici ufficiali, nell’autenticazione delle firme che sostenevano le liste del Pd e quella del listino dell’attuale presidente regionale. Nuovi avvisi di garanzia sono poi arrivati anche quattro dipendenti di via Masserano, sede del Pd regionale (Gianni ArdissoneMara MilanesioCristina RolandoCarola Casagrande) con l’accusa di concorso nella presunta falsificazione delle firme. Per una vicenda tutt’altro che conclusa.

 

CHIAMPARINO E LE DIMISSIONI POSSIBILI –

Di certo, Chiamparino ha già rivendicato di non volere emulare il suo predecessore Cota. Se il leghista fece ricorso in Consiglio di Stato contro il verdetto del Tar con cui furono dichiarate nulle le elezioni del 2010, prima di doversi arrendere alla conferma del verdetto e all’obbligo di indire nuove elezioni, l’attuale governatore si è ha già detto pronto al passo indietro. Non vuole lasciarsi logorare dalle ombre giudiziarie, Chiamparino, nonostante la vittoria elettorale ampia (47% al centrosinistra, 22% al centrodestra, ndr) dello scorso anno. Né ha tentato di “coprire” possibili errori di chi è stato incaricato a raccogliere le firme. L’impressione, al di là degli accertamenti, è che nella macchina burocratica qualcosa sia andato storto. Una beffa, dato che il Pd non era nemmeno tenuto a raccogliere le firme, avendo un gruppo in Regione che poteva validare la lista, come suggerito da diversi membri del partito locale. «Lo dico chiaramente: sulla questione delle firme qualche pasticcio c’è stato. Nel momento in cui diventa chiaro che ci si mette sulla strada che ha segnato la vicenda Bresso-Cota, un minuto dopo manderò al presidente del Consiglio regionale, Mauro Laus, la mia lettera di dimissioni. Perché nessuno dovrà dire che noi siamo come gli altri», ha spiegato il governatore.

Stati generali del Nord promossi dalla Lega
Lega Nord, Salvini e il pressing per le dimissioni di Chiamparino

LE PROTESTE DELLE OPPOSIZIONI –

Eppure, come incalzano le opposizioni (centrodestra e M5S) a Palazzo Lascaris, lo stesso Chiamparino ha già fatto retromarcia sulla data della possibile deadline della sua esperienza a Piazza Castello. L’unico scenario che il governatore ha spiegato di voler prendere in considerazione nel caso non arrivasse una sentenza di assoluzione. Prima il presidente della Regione aveva spiegato di non volere attendere oltre il 9 luglio 2015, quando dal Tar avevano in un primo momento ipotizzato di esprimersi per un verdetto finale: «Il 9 luglio c’è bisogno di una parola chiara […] Senza tempi certi intorno a quella data, si ridà la parola agli elettori utilizzando la finestra dell’autunno», aveva replicato il governatore. Per poi allontanare nel tempo la decisione.

Forse in autunno, dopo la sessione estiva del Tar. Forse nel 2016. Questo perché lo scorso 19 febbraio lo stesso Tribunale amministrativo ha lasciato intendere che non avrebbe fatto in tempo a esprimersi sul caso entro il 9 luglio. Anche perché è necessario attendere la sentenza del processo penale in corso, per il quale sono ancora in corso le indagini preliminari, con la stessa Procura che ha messo sotto sequestro gli atti. «La data non la decido io, ma il TAR. Avevo parlato del 9 luglio perché era l’unica data fissata», si era “corretto” Sergio Chiamparino. Accusato di voler “cincischiare” sul caso, con i consiglieri d’opposizione all’attacco in Consiglio regionale.

Tra tutti, sono Grillo e Salvini a spingere affinché venga subito restituita la parola agli elettori. Senza attendere il verdetto della giustizia amministrativa, passaggio individuato come deadline dal governatore. Rivendicazioni che saranno rilanciate sabato 28 a Torino per la manifestazione del Carroccio #chiamparinoacasa, con Salvini presente. Una sorta di riedizione dell’iniziativa organizzata dal segretario federale della Lega in chiave anti-Renzi a Roma, lo scorso primo marzo. In piazza Solferino ci saranno anche le rappresentanze di Forza Italia e Fdi. Con un’unica richiesta. Tornare presto al voto. 

Firme false Piemonte Chiamparino
Davide Gariglio, Piero Fassino e il partito piemontese festeggia il risultato del Pd alle Europee (Lapresse)

IL PD E LE FIBRILLAZIONI TRA LE ANIME DELLA MAGGIORANZA RENZIANA. CATTODEM CONTRO FASSINIANI-

Una prospettiva che non sembra utopica, né semplice fantapolitica. Tutto mentre, subito dopo l’inchiesta e dietro l’iniziale apparente unità, nello stesso Pd sono subito scattate le accuse incrociate. E a far traballare l’intesa precaria tra le anime del renzismo piemontese è stata la creazione di un “audit”, un organismo interno di accertamento, lanciato ad hoc dal segretario regionale, il cattorenziano Davide Gariglio. “Per fare chiarezza”, era stato spiegato. Troppo tardi, per chi ha accusato Gariglio di non aver attivato procedure straordinarie di controllo al momento della raccolta delle firme. Ora il numero uno del Pd piemontese viene contestato anche da chi interpreta l’audit come uno strumento per scaricare parte delle responsabilità.

Critica è soprattutto la corrente fassiniana, quella del segretario provinciale ed ex senatore Fabrizio Morri. Un’area che ha più volte manifestato perplessità sul rischio che l’organo, più che ad accertare le responsabilità, si trasformi in una sorta di tribunale interno. A caccia di capri espiatori, come confermato a Giornalettismo anche da fonti interne della federazione torinese. Ma non solo: c’è anche chi è convinto che il reale intento sia quello di delegittimare proprio gli stessi vertici della federazione di Torino, in una faida interna al Pd. «Pericoli per una “deriva” dell’audit? Guardi, non mi faccia dire altro. Però il rischio c’è tutto e l’ho segnalato, adesso vediamo che succede», si è limitato ad aggiungere Morri, contattato da Giornalettismo. E non è un caso che, come ha ricostruito il quotidiano online locale “Lo Spiffero“, la segreteria regionale di giovedì sera sia stata a dir poco tesa. Con tanto di redde rationem sfiorato tra Gariglio e i fassiniani, che hanno spinto per chiudere subito il lavoro dell’Audit. Alla fine il compromesso raggiunto è stato quello di archiviare le attività dell’organo in tempi brevissimi. E di evitare altre dichiarazioni dei suoi membri sui media, anche per cercare di svelenire il clima interno. 

Dentro le forze della maggioranza in Consiglio regionale, non pochi temono che l’inchiesta della Procura sulle firme false e il procedimento del Tar possano concludersi con un epilogo prematuro dell’esperienza Chiamparino. Di certo, non giovano i rapporti tesi dentro il Pd locale. Dove pesano anche i malumori di Piero Fassino, che ha dovuto mettere da parte le ambizioni per il Quirinale dopo che Renzi gli ha preferito Mattarella. Un remake della “bocciatura” che il premier gli riservò al momento della scelta per la Farnesina (prima con Mogherini, poi con Gentiloni). Tra i corridoi parlamentari c’è chi rilancia che Fassino abbia gradito poco il “no” per il Colle, attirandosi poi antipatie tra i vecchi “sodali” e collaboratori. Così come al governo non è mancata l’irritazione per diverse rivendicazioni e critiche avanzate da Fassino in qualità di presidente dell’Anci. In pratica, i rapporti si sarebbero incrinati tra Fassino e i renziani più ortodossi. Così come la geografia interna dentro la vecchia AreaDem già guidata dall’attuale sindaco. Ancora indeciso se tentare il prossimo anno il bis alla guida del capoluogo piemontese o guardare verso altre sfide.

Spiragli potrebbero aprirsi anche per la poltrona più ambita in Regione, se nel 2016, per il caso sulle presunte firme false, i piemontesi dovessero essere chiamati a tornare alle urne. Magari, per un election day insolito: amministrative di Torino e Regionali, nello stesso giorno. Sarà il Tar (e la Procura) a fare maggiore chiarezza. Il 9 luglio. O qualche mese più tardi.

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