Una Leopolda di passaggio

Che sia stata una Leopolda diversa dalle altre, non c’è dubbio. Che sia stata una Leopolda di governo, è altrettanto chiaro. Che sia stata una Leopolda un po’ in tono minore, lo penso io, per quel che può contare. Un po’ autocelebrativa, un po’ referenziale, almeno fino al discorso finale di Renzi. Che, come al solito, appena salito sul palco, ha scompaginato: “Non parlerò di Leopolda”, il suo attacco iniziale.

Si è trattato di una Leopolda di passaggio, un passaggio necessario tra la forza “rivoluzionaria” degli anni scorsi e la consapevolezza dell’essere al governo del paese. Con le relative responsabilità che questo comporta.

Nella chiesa laica di Matteo Renzi, la stazione Leopolda, il rito si è ripetuto per almeno i primi due giorni in modo un po’ stanco, dando l’impressione che il format – che forse non regge più i tre giorni – sia ormai un po’ logoro. Soprattutto la giornata di sabato, con la dispersiva e caotica idea dei tavoli, non ha offerto spunti interessanti, regalando a Serra il ruolo di protagonista assoluto.

Ma oggi, in un certo senso, tutto è tornato al suo posto. L’escalation verso il discorso del Presidente del Consiglio. Si, perché se nelle altre occasioni Renzi era ancora l’outsider che voleva scalare il Partito, oggi – dal leggio – si è presentato, anche se senza giacca, il Presidente del Consiglio. Si, perché se Matteo venerdì sera aveva fatto il padrone di casa, che resetta il passato (“chiudere senza salvare”), oggi si è presentato da premier del governo. Che ha prima celebrato i suo ministri (e le sue ministre), la nuova classe dirigente, quella immortalata la sera della vittoria delle Europee, quando Renzi non si presentò ai giornalisti, e poi è salito sul palco iniziando a parlare di politica estera.

Certo, poi è arrivato il discorso rivolto soprattutto alla pancia. Alla pancia del suo popolo che, come al solito, lo ha acclamato.

Renzi, come è normale nella sua comunicazione, ha prima costruito la contrapposizione con “L’Europa dei burocrati”, di quelli che vogliono trasformare l’Europa della speranza nell’Europa delle “regole” e dei “parametri”. (e, guarda caso, il video che lo ha introdotto conteneva le immagini della doppietta di Balotelli – il nuovo italiano – alla Germania).

E poi la risposta alla Bindi e alla sinistra interna. Capace in ogni modo momento topico di offrire un assist perfetto a Matteo Renzi. Così il premier ha buon gioco a sfruttare l’occasione e segnare il gol «Non permetteremo alla dirigenza del 25% di riprendersi il partito».

Oggi, sul palco della Leopolda, tra i ministri Boschi (bello il suo intervento, finalmente ha mostrato un lato più umano rispetto alla ministra “perfettina” che siamo abituati a vedere in tv e in Parlamento) e Pinotti, si è materializzato il Pd come lo intende Renzi. Un Pd – partito della nazione – in grado di mettere insieme Gennaro Migliore, ex Vendoliano, e il riformista Andrea Romano. Né più né meno il Partito Demcoratico come lo intendeva Walter Veltorni al Lingotto. Un Pd in grado di parlare ai dipendenti pubblici e agli imprenditori, che sappia andare oltre all’idea classica di rappresentanza della sinistra, come – evidentemente – è impossibile per chi era ieri in piazza con la Cgil.

Perché qui è il nodo su cui discutere rispetto al Pd di Renzi, ed è forse il nodo irrisolto del Pd da sempre. Chi pensa che il Pd debba rivolgersi solo ad una “parte” dei cittadini piuttosto che a tutti, forse dovrebbe riflettere sulla sua attuale collocazione.

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