Arance e Martello: Zoro a Venezia non convince

Dov’è il Diego Bianchi di Tolleranza Zoro e Kansas City? Dov’è il cantore moderno, l’uomo che sa passare dall’io (il suo) al noi con un’ironia poetica, romantica ma anche implacabile e lucida? Dov’è il laboratorio creativo di Gazebo o almeno quel bellissimo e non tanto conosciuto film-documentario Finale di partita? Dov’è l’uomo che ha saputo raccontarci con intelligenza Renzi e in modo esilarante e struggente l’As Roma? E dov’è Makkox? Ah, no, lui c’è. Ma troppo poco, come sempre.

ARANCE E MARTELLO, LA STORIA – Sono tante le domande che si affollano nella testa dello spettatore, soprattutto se è un cultore affezionato di uno dei personaggi più interessanti che il piccolo schermo – e il monitor – ha regalato negli ultimi anni. Perché è difficile riconoscere la mano sapiente di Diego Bianchi in Arance e martello, selezionato come evento speciale alla Settimana della Critica. Eppure la storia sembrava un rigore a porta vuota, pienamente nelle sue corde: siamo nel 2011, al mercato di Via Orvieto a Roma. Nella giornata più calda dell’anno, la giunta Alemanno (qui interpretato da Giorgio Tirabassi) decide che è ora che venga chiuso. Il quartiere, quello di Bianchi che, interpretando se stesso, vuole fare un documentario su quel luogo centrale e simbolico, si accende. I proprietari e i lavoratori dei banchi vogliono la rivoluzione e dal qualunquismo quotidiano che vivono tra piccoli razzismi e aforismi capitolini, tra un’integrazione sui generis e derive berlusconiane, passano alla politica attiva. E pure un po’ cattiva. Cercano quella sezione del Pd che hanno schernito per anni. E così quei militanti ormai staccati dal mondo che li circonda – letteralmente: un muro costruito per permettere i lavori della metropolitana li ha ancora più isolati – si ritrovano a poter fare quello che, almeno a parole, avrebbero sempre voluto. Ma è pur sempre il PD: sono abbastanza democratici da volerne discutere e votare e abbastanza pachidermici da non decidere nulla.

TROPPO ZORO – E questa è persino la parte migliore del film. L’esplorazione del proprio mondo del regista, pur non trovando la felicità di racconto solita, ha una sua fluidità. La tensione tra i diversi gruppi sociali di quel microcosmo e poi l’esplosione della tensione tra gli stessi, ha un suo fascino, così come la scena di una fuga-rincorsa verso il futuro in cui, e questa è una bella idea di sceneggiatura, il regista si trova disorientato in una massa isterica. Non sa dove stare, se rincorrerli, precederli o mischiarsi a loro. Tutti hanno una loro identità in quel momento, tranne lui. Troppo consapevole per essere parte del popolo ribelle, troppo disilluso per appoggiare quella sezione che in passato lo aveva visto protagonista. E’ un terzo osservatore, ma inevitabilmente attivo. Poteva essere la sua forza, è diventata la sua debolezza.

Parte una giornata molto particolare, in cui tutti i metodi di lotta, sostanzialmente, vengono sperimentati, rivolgendosi soprattutto a quelli del passato. La cattività di un’occupazione, poi, tirerà fuori il meglio e il peggio di tutti. Ed è qui che il lungometraggio crolla. Si rimane basiti da come, anche se al suo esordio, l’autore perda subito la bussola narrativa e creativa.

NOSTALGIA DI GAZEBO – Lui, che in particolare a Gazebo ha trovato una forma e un modo complessi e allo stesso tempo immediati di mostrare le dinamiche del potere, della politica e della società, qui si rifugia in idee da avanspettacolo (donne procaci, una fermata al bagno dolorosa e prolungata, slapstick di bassa categoria), in furbe captatio benevolentiae in cui si “autoaccusa” di ciò che gli spettatori stanno pensando di lui a proposito dell’autoreferenzialità inevitabile ma qui ancora più insistita o del suo essere “amico di quelli che prima odiava”, dandosi del radical chic opportunista in un monologo decisamente poco riuscito. Come la scena onirica in cui tiene in mano i premi che sogna di vincere, David di Donatello in testa. Il linguaggio cinematografico è basico e spesso sballato, alla prova di una durata maggiore Zoro si scioglie. Così come già Gazebo portato a tre volte la settimana era stato già un campanello d’allarme sui suoi limiti e aveva denunciato una sua certa stanchezza nei contenuti, altrimenti straordinari nella formula unica della domenica della prima stagione, così questo film ci conferma che i suoi tempi, le sue intuizioni, hanno un respiro breve. Sulla distanza lunga, la sua poetica si sfalda. Esteticamente e contenutisticamente, la strada che cerca è una semplificazione che non restituisce la sua solita sensibilità. Forse proprio la trasmissione tv che ha inventato e portato al successo gli ha dato alla testa: prima era quello dei “cinque minuti”, là ha cominciato a portare la narrazione su una durata più ampia: ma, soprattutto nella prima edizione aveva avuto tre mesi scoppiettanti e irripetibili, trovandosi tra le mani ogni settimana un evento straordinario (le dimissioni del Papa, l’insediamento del governo Letta e la sparatoria a Montecitorio, le elezioni del Presidente della Repubblica). Qui un evento doveva inventarselo e renderlo epico. Oppure doveva scegliere uno stile diverso da quella camera puntata addosso a sé che è il suo marchio di fabbrica, anche se ovviamente le inquadrature vanno anche altrove. Non emoziona, non indigna, non produce empatia, né voglia di ripensarsi. La sua Armata Brancaleone a volte (poche) ti conquista, ma è proprio lui l’anello debole del progetto: la sua parte, il suo ruolo, smorza anche le scene migliori in cui gli altri, bravi e interessanti, fanno la cosa giusta.

DIEGO BIANCHI, VOTO ZORO – E dire che Diego Bianchi ha avuto il pieno controllo del progetto, che si è diretto, scritto e persino montato con Alessandro Pantano. E forse è proprio questo il problema, perché al cinema si gioca con altre regole, come già abbiamo visto con Sabina Guzzanti, anch’essa ossessionata dal mettersi al centro dell’opera. E per vedere altro, per citare Dino Risi su Moretti, dovresti chiedere loro di scansarsi. Ed è strano, perché a dispetto della sua costante presenza, fino ad ora la forza di Zoro è stata quella di saper valorizzare gli altri. Fossero estemporanei compagni di viaggio o sodali. In Arance e martello, invece, in un eccesso di presunzione – lo senti sempre superiore e persino snob nei confronti dei personaggi e della storia – e autocompiacimento, anestetizza il proprio talento e annulla anche le poche buone intuizioni. Non ha una visione, il linguaggio cinematografico è zoppicante, la scrittura mai felice come in passato, il soggetto, senza più Berlusconi e con un Pd molto diverso, è anacronistico.
Il regista e conduttore televisivo non si lascia sorprendere dalla realtà, come finora gli era accaduto,  ma annichilire dalla finzione.

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