F-35, come e perché

25/03/2014 di John B

La questione dei cacciabombardieri F-35 è tornata più volte alla ribalta delle cronache ma ha sempre costituito motivo di accese discussioni e contestazioni su vari siti Web, soprattutto in chiave pacifista e antiamericana.

F35, I FATTI – Ma come stanno effettivamente le cose e come si è arrivati a impegnare l’Italia in un programma militare multimiliardario, com’è possibile liberarsene e conviene farlo? Proviamo a rispondere a queste domande, sia pure sinteticamente. Innanzitutto bisogna ricostruire i momenti essenziali che hanno portato alla scelta di questo aeromobile. Dagli anni settanta, l’Aeronautica Militare utilizzava gli F-104S Starfighter sia come caccia intercettori (versione CI) che come velivoli da strike nucleare (versione CB), con una dotazione di oltre 200 velivoli. Per l’attacco al suolo, la forza aerea schierava i G-91 di produzione nazionale (oltre 240 esemplari consegnati). Si trattava, per entrambi i modelli, di aerei obsoleti, concepiti negli anni 50 in piena Guerra Fredda e che già negli anni ottanta erano anacronistici rispetto alle mutate esigenze del combattimento aereo. Venuta meno la necessità di uno striker nucleare e considerato che l’industria nazionale stava già provvedendo alla sostituzione dei G-91 con gli AMX, l’Aeronautica decise di aderire al programma MRCA, Multi Role Combat Aircraft, assieme a Inghilterra e Germania.

LA STORIA – L’MRCA avrebbe dovuto sfornare un aereo multiruolo, in grado di fare sia il caccia che il bombardiere. L’Italia era interessata soprattutto al ruolo da caccia, per sostituire gli F-104 nella difesa dei cieli aerei nazionali. Purtroppo le cose andarono diversamente. Gli inglesi, che erano più interessati ad avere un bombardiere piuttosto che un caccia e che di fatto guidavano il consorzio che avrebbe dovuto realizzare il nuovo velivolo, influenzarono in modo determinante il progetto che alla fine partorì il Panavia Tornado, che era un bombardiere puro, ottimizzato per lo strike a bassissima quota. Così l’Aeronautica Militare si ritrovò con 100 bombardieri modernissimi ma inutili per sostituire i decrepiti Starfighter che continuarono ad assicurare la difesa aerea nazionale fino al XXI secolo (e precisamente fino al 2004). In effetti gli inglesi negli anni successivi svilupparono dal Tornado una versione da intercettazione, il Tornado ADV ma si trattava pur sempre di un bombardiere adattato, buono per intercettare bombardieri non scortati ma a mal partito nel combattimento aereo contro altri caccia. Per i cieli inglesi andava bene, perché i caccia sovietici (all’epoca il nemico di riferimento era l’URSS) non avevano l’autonomia sufficiente per scortare i bombardieri fino in Inghilterra. Ben diverse le esigenze italiane, che dovevano fronteggiare vicini di casa molto irrequieti su tutto l’arco sud-orientale. Per queste ragioni l’Italia, nazione pacifica per definizione costituzionale, si ritrovò con una linea d’attacco di prim’ordine (i modernissimi Tornado e AMX) e una linea di difesa aerea decrepita (gli obsoleti Starfighter). Fu questa la ragione per cui si decise di entrare in un nuovo progetto internazionale, l’Eurofighter, realizzato ancora una volta in collaborazione con la Germania e l’Inghilterra (cui si aggiunse anche la Spagna).

EUROFIGHTERS – L’obiettivo era quello di realizzare finalmente un vero e proprio caccia in grado di assicurare la difesa aerea dei cieli italiani. Il programma Eurofighter, però, andò per le lunghe e per tamponare in qualche modo la situazione, anche perchè gli F-104 erano ormai arrivati al limite della vita utile, l’Aeronautica si ritrovò a dover noleggiare prima una ventina di Tornado ADV della RAF inglese e poi altrettanti caccia americani F-16 Falcon. L’Italia prevedeva di acquistare 121 esemplari del nuovo caccia Eurofighter Typhoon, un numero che già appariva appena sufficiente a coprire le esigenze operative, calcolando una vita di servizio di circa 30 anni con il relativo “tasso di attrito” (ossia i velivoli persi in incidenti, mediamente uno all’anno). Tuttavia i costi del programma Eurofighter lievitavano mentre si facevano sempre più stringenti le esigenze di riduzione delle spese militari, specialmente alla luce dei buoni rapporti che ormai legavano l’Europa alla Russia e alle altre nazioni dell’ex Patto di Varsavia. L’Aeronautica dovette quindi accontentarsi di soli 96 aerei, un numero obiettivamente insufficiente a coprire tutto lo spazio aereo nazionale, dalla Sicilia alle Alpi, anche perché nel frattempo, venuto meno il rischio di essere attaccati dall’URSS, era spuntato quello ben più attuale e concreto degli attacchi terroristici dall’aria, come quelli dell’11 settembre 2001 in U.S.A.. Dato che ormai anche i Tornado e gli AMX stavano invecchiando, fu logico pensare all’acquisizione di un nuovo velivolo, più economico dell’Eurofighter e capace da un lato di sostituire i Tornado e gli AMX e dall’altro di dare una mano ai Typhoon. Nel frattempo anche la Marina aveva necessità di un nuovo aereo per la propria portaerei.

DIMENSIONI – Quest’ultima era troppo piccola per operare con velivoli tradizionali ed era equipaggiati con gli Harrier, cacciabombardieri a decollo/atterraggio verticale. L’industria americana stava lavorando su un nuovo caccia, il programma JSF, un velivolo (relativamente) economico e multiruolo, che avrebbe dovuto sostituire quasi tutti i modelli in servizio presso l’aviazione e la marina statunitensi: i cacciabombardieri F-16 ed F-18, gli aerei d’attacco A-10 e gli Harrier. Gli americani cercavano partner nel programma e per l’Italia quello era l’uovo di Colombo. Il JSF (poi diventato F-35) avrebbe potuto sostituire gli Harrier della Marina Militare nonché i Tornado e gli AMX dell’Aeronautica, contribuendo anche alla difesa aerea assieme ai Typhoon. In più, la possibilità di entrare come partner nel programma, avrebbe consentito di ottenere importanti benefici dal punto di vista dell’occupazione, dell’acquisizione di nuove tecnologie e dei ritorni economici sulle vendite del velivolo all’estero (con un mercato stimato in molte migliaia di esemplari). Così l’Italia entrò nel programma, con la previsione di acquisire un totale di 131 F-35, poi ridotti a 90. L’Italia versò un miliardo di dollari con la previsione di spendere, per l’intero programma, circa 15 miliardi di euro, con un costo unitario di circa 120 milioni di euro ad esemplare, compresi gli investimenti per lo sviluppo e l’allestimento della catena di produzione. Un prezzo non proprio economico ma bisogna considerare che i Typhoon sono costati agli inglesi, tirate tutte le somme, qualcosa come 300 milioni di euro al pezzo, anche se oggi il costo di produzione nudo e crudo di un Typhoon si colloca al di sotto dei 100 milioni. E bisogna considerare anche il ritorno occupazionale ed economico. La linea di assemblaggio e manutenzione allestita a Cameri funzionerà per 40 anni e darà lavoro ad alcune migliaia di persone.

NUMERI E OTTIMISMO – Le stime (invero ottimistiche) commissionate dalla Lockheed affermano che l’Italia avrà un ritorno economico complessivo di circa 12 miliardi di euro. Certo è che come partner nel programma l’Italia avrà la sua fetta di ritorni economici sulle vendite del velivolo e l’F-35 si venderà in migliaia di esemplari, visto che è l’unico aereo di quella categoria sul mercato occidentale ed è destinato a sostituire le molte migliaia di F-16 ed F- 18 in servizio. Infine, non si deve dimenticare che gli F-35 consentiranno di sostituire un numero ben superiore di Tornado e di AMX, con notevoli risparmi nei costi di gestione e manutenzione. Di tutto questo occorre tener conto, quando si discute di sopprimere il programma o di ridurre ulteriormente i velivoli da acquistare. In effetti, l’Italia potrebbe accontentarsi della novantina di Eurofighter in servizio, rinunciare a sostituire i Tornado e gli AMX e mandare in pensione portaerei e aviazione imbarcata (perché oggi non ci sono alternative all’F-35 per la portaerei). Tutto si può fare. L’importante è avere ben chiaro che l’uscita dal programma F-35 (o la drastica contrazione dei velivoli acquistati) comporterà inevitabilmente una sensibile riduzione delle nostre capacità operative militari (l’acquisto di un un ulteriore nuovo aereo per sostituire Tornado e AMX annullerebbe i risparmi ottenuti). E’ vero che la Guerra Fredda è finita, ma è anche vero che i nuovi “amici” che credevamo di aver trovato, non sembrano affatto così quieti. L’Ucraina sta sperimentando a proprie spese la determinazione della Russia, che negli ultimi anni ha avviato un imponente programma di riarmo sbandierato con soddisfazione dai siti antiamericani, a utilizzare la forza militare per invadere e annettersi la Crimea. La Russia è lontana (ma neanche troppo), però i vicini inquieti non mancano nemmeno da queste parti. La verità è che ancora oggi, a dispetto di tutte le buone intenzioni e i proclami di pacificazione, la forza militare di una nazione ha il suo peso nel contesto internazionale e aiuta non poco a farsi rispettare. Senza esagerare (ed è indubbio che l’Italia lo abbia fatto, soprattutto con costose e numerose partecipazioni a missioni internazionali), gli italiani hanno bisogno di uno strumento militare credibile, in grado di garantire la sorveglianza e la difesa del proprio spazio aereo, dei propri confini, dei mari limitrofi e degli obiettivi di importanza strategica. Stabilito ciò che ci serve davvero, è giusto tagliare via tutto ciò che è superfluo (e di roba tagliare ce n’è). Se gli F-35 rientrano o meno nel superfluo, è una valutazione che va fatta solo nel contesto di una seria analisi e programmazione, tecnica e politica. Tagliare il programma solo per recuperare qualche miliardo di euro a breve termine, rischia di rivelarsi un autogol in termini economici, politici e di credibilità internazionale.

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