Matteo Renzi e il piano da 1000 miliardi per salvare l’Italia

1000 miliardi. Cifra tonda. È questo il numero magico che esce dalla proposta di programma, ideata da Paolo Savona e Andrea Monorchio e condivisa dall’Associazione “L’Italia c’è”, che viene sottoposta al nuovo presidente del Consiglio Matteo Renzi e pubblicata sul numero di sabato di Milano Finanza.


LO SCAMBIO
– Il punto centrale della proposta consiste nella sostituzione di 1000 miliardi di titoli di debito pubblico (BOT, BTP, CCT, eccetera) con 650 miliardi di nuovi titoli a lungo termine, indicizzati all’inflazione ed al 20% della crescita del Pil reale, e 350 miliardi di titoli di partecipazione ad un fondo patrimoniale, nel quale dovrebbero confluire i beni mobili ed immobili dello Stato e degli Enti Locali, per complessivi 700 mld. Si tratterebbe in sostanza di una ristrutturazione di parte del debito pubblico con un allungamento delle scadenze e una riduzione in molti casi dei rendimenti, a fronte dei vantaggi economici rivenienti dalla compartecipazione alla proprietà di beni dello Stato, quantificati in un ritorno minimo garantito pari al rendimento dei nuovi titoli di stato di cui prima, e l’esenzione fiscale delle relative plusvalenze per 25 anni. Questo scambio, da quel che si capisce dall’articolo, dovrebbe avvenire con adesione volontaria da parte dei possessori di titoli di stato (“L’operazione, che verrebbe avviata solo al raggiungimento della soglia di disponibilità di 1.000 miliardi da parte del mercato…”).

CRISI/ITALIA

I VANTAGGI – Secondo gli estensori della proposta i vantaggi sarebbero principalmente due: far diminuire di 200 mld. (il 13% del PIL) il debito pubblico, in quanto i titoli di partecipazione al fondo patrimoniale non sarebbero ovviamente considerati debiti, ed avere un risparmio per interessi di almeno 35 mld. annui, che potrebbero essere utilizzati per abbattere la pressione fiscale. A lato di questa operazione sarebbero inoltre anche costituiti tre fondi da 50 mld. cadauno finalizzati rispettivamente a garantire nuovi mutui immobiliari, accollandosi anche cinque anni di interessi di preammortamento, coprire le perdite delle sofferenze bancarie relativamente ai crediti erogati alle imprese e per ultimo finanziare un credito di imposta al 100% per le ricapitalizzazioni fatte dai soci delle PMI.


I DUBBI
– Ma arriviamo ai dubbi. Come abbiamo detto l’adesione allo scambio dovrebbe essere eseguita da quel che si capisce su base volontaria. Sinceramente non si vede che convenienza avrebbe un investitore che ha messo i suoi soldi in un titolo scadente fra un paio di anni a vederselo tramutare da una parte in un titolo a lungo termine, con tasso pure inferiore, dall’altra in una quota di fondo per il quale non sembra essere prevista alcuna liquidazione, ma solo la eventuale negoziazione sul mercato, sempre che si trovi un acquirente e chissà a quale prezzo. Non casualmente l’articolo si apre sottolineando come il 60% del debito pubblico italiano sia ad oggi nelle mani di risparmiatori e istituzioni finanziarie nazionali. Se pensare male si fa peccato, però il sospetto viene che la volontarietà non sarebbe proprio così volontaria, a meno di non pensare che lo scambio, come lascerebbe intuire l’importo, sia alla fine circoscritto alle sole istituzioni finanziarie (banche, fondi, eccetera) a vantaggio delle quali sono infatti destinati 2 dei 3 fondi da 50 mld. A questo punto però bisognerebbe considerare se la “spoliazione” da parte dello Stato di 350 mld. di beni non abbia riflessi sulle sue garanzie di solvibilità alterando la struttura di seniority dei titoli di stato. Infatti se prima questi erano garantiti dagli incassi. E dal patrimonio statale, quest’ultimo verrebbe appunto in parte escluso, specie se nel fondo, come indicato nella proposta, ci finissero beni che producono incassi per lo stato come alcune partecipate (ENI, ENEL, FinMeccanica) e i beni demaniali oggetto di concessione ai privati (etere, spiagge, miniere, eccetera). Sicuramente il profilo di rischio sia per i rimanenti che per i nuovi titoli di stato sarebbe diverso da quello attuale, con tutti i relativi problemi conseguenti.

matteo renzi debito pubblico piano 1000 miliardi

LE DIFFICOLTA’ PRATICHE – Ci sarebbero poi le difficoltà brutalmente pratiche: non esiste a tutt’oggi un censimento completo dei beni dello Stato e degli Enti Locali, quindi non si capisce bene come potrebbero essere conferiti e a quali valori. Valori che fra l’altro, considerata la scarsa redditività attuale di molti di questi, sarebbe interessante capire come potrebbero essere calcolati. A questo discorso si riaggancia anche la redditività GARANTITA del fondo che appare estremamente ottimistica. Chi farà rendere quei cespiti in modo da poter remunerare gli investitori? Quali investimenti abbisognerebbero? O se messi in vendita chi se li compra? E a quali prezzi? E gli incassi dove andrebbero reinvestiti? In realtà sarà probabile che lo Stato sia costretto a integrare la redditività del fondo direttamente, vanificando in tutto o in parte il presunto risparmio di interessi.

BANKITALIA

IL VERO PROBLEMA DIETRO LO SCAMBIO – Sinceramente questa operazione più che finalizzata all’abbattimento del debito pubblico, sembra essere un artifizio contabile, in stile rivalutazione quote di Bankitalia, per portarne un po’ fuori dal bilancio statale e poter quindi sostenere coi 100 mld. le banche che stanno collassando sotto il peso di un comparto immobiliare in crisi profonda e delle sofferenze sui crediti erogati alle aziende. In pratica è un sostituto alla bad bank creata con denaro pubblico già cassata più volte dal (ex) ministro Saccomanni, semplicemente per il motivo che soldi in bilancio non ce ne sono e non abbiamo né l’autonomia fiscale, costretta entro i trattati europei, né una Banca Centrale autonoma, come ad esempio la Bank of England, che può sostenere con acquisti sul mercato secondario il nuovo debito pubblico necessario per la nazionalizzazione di parte del sistema bancario. La complessità della soluzione purtroppo temo che indichi la drammaticità della situazione, ma anche l’incapacità di vedere che questa situazione oramai non è più sostenibile a lungo.

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