La suora stuprata dal prete che abbandona la figlia

Una suora proveniente dal Congo che nel 2011 aveva partorito una bambina dopo uno stupro perpetrato da un prete, e poi l’aveva lasciata in adozione, ha deciso di riprendersela e la Cassazione le ha dato ragione. La sua storia è oggi su Repubblica:

La storia di Grace (nome di fantasia), una donna di 44 anni di nazionalità congolese con un passato da monaca e un futuro da madre, comincia a Roma un paio di anni fa. È inviata lì dalla sua Congregazione per studiare teologia alla Pontificia università urbaniana. Conosce un sacerdote, anche lui del Congo, che — stando a quanto racconta — la violenta. Rimane incinta, lui scappa in Africa. Per le sue consorelle superiori c’è solo una cosa da fare: partorire e non riconoscere la bambina. «Glielo ordinano proprio», sostiene l’avvocato della donna, Luca Giardini.

Dopodiché viene cacciata dal convento e decide di riavere indietro la figlia:

Ci sono però un uomo e una donna che da settimane stanno badando a quella bambina, ne hanno il diritto e non la vogliono perdere. La questione finisce davanti ai giudici. Il Tribunale dei minorenni a marzo del 2013 si pronuncia per la non adottabilità: Grace comincia a stare con sua figlia in locali “protetti”, con psicologi e assistenti sociali. La vede dieci, quindici volte. «Al primo incontro — ricorda l’avvocato Giardina — la piccola aveva poco più di un anno e osservava il colore della sua pelle. Sono sicuro che l’ha riconosciuta».

La Corte di appello di Ancona, però, pochi mesi dopo interrompe questo riavvicinamento, ribaltando il giudizio del Tribunale dei minorenni:

«L’abbandono è ormai consolidato — sostiene — la scelta di non riconoscere la figlia è maturata con assoluta consapevolezza e nonostante l’Oasi dell’Accoglienza di Fano le avesse garantito il pieno sostegno nel caso la volesse tenere». Il procedimento d’adozione riparte. E va avanti fino a ieri quando la prima sezione civile della Cassazione emette una sentenza che farà giurisprudenza nella delicata materia del “diritto al ripensamento” delle madri biologiche.

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