Fermare la pubertà nei «bambini transessuali»?

Il dipartimento di «Medicina della sessualità e andrologia» dell’ospedale di Careggi, Firenze, avrebbe proposto di «fermare la pubertà nei bambini transessuali». Un consigliere regionale agita lo spettro della «manipolazione biologica». Qualche giorno fa l’Adnkronos titolava «Sanità: cambio sesso, Careggi Firenze valuta stop pubertà in bimbi con problemi» (22 marzo 2013). Alcuni giornali hanno ripreso sia il titolo (come la Nazione: «”Cambio di sesso, bloccare la pubertà nei bambini? Una manipolazione biologica”») sia il contenuto, a cominciare dalla prima riga: «Bloccare la pubertà nei bambini che manifestano sintomi di transessualità». Come prevedibile, la discussione è stata e rimane animata. Il consigliere regionale Gian Luca Lazzeri (Più Toscana), membro della IV commissione Sanità e tesoriere del gruppo Lega Nord Toscana denuncia la «manipolazione biologica». L’argomento è complesso e alcuni termini sono usati in modo ambiguo e confuso. Ne parlo con Luca Chianura, psicologo, psicoterapeuta e Responsabile di Psicologia Clinica “Area Adulti” SAIFIP-A.O. San Camillo-Forlanini di Roma.

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BLOCCARE LA PUBERTÀ – Mi dice Chianura: «I bloccanti ipotalamici, in realtà, sospendono momentaneamente lo sviluppo dei caratteri secondari sessuali e non provocano alcun “cambiamento di sesso”.  Questo tipo di terapia viene prescritta in Italia in pochissimi centri pubblici specializzati. I bloccanti sono somministrati solo agli adolescenti a partire dai 16 anni, dopo un’approfondita valutazione da parte di una équipe multidisciplinare e in accordo con i genitori e con i ragazzi. Poi, di solito a 18 anni, si inizia la terapia ormonale vera e propria. In questo caso, i giornali hanno parlato erroneamente di “bambini”. Vorrei ricordare che in altre parti dell’Unione Europea si comincia con i bloccanti a 12 anni (Amsterdam) o a 14 anni (Londra), e che le procedure che regolano questi trattamenti sono consolidate da anni di esperienza e pubblicate in numerosi articoli di riviste internazionali. In queste ricerche, è stato evidenziato che gli adolescenti con disforia di genere che assumono la terapia con bloccanti ipotalamici migliorano notevolmente la loro qualità di vita».

DIAGNOSI – È ovvio che per avviare un percorso farmacologico, così come un percorso psicologico, sia necessario partire da una diagnosi certa. «La diagnosi deve valutare che la condizione dell’individuo sia “permanente” – dice Chianura. Seppure in molti casi, i primi segnali di un disagio e di un’atipicità sono precoci, a partire dai 3-4 anni, non è “utile” definire un bambino come “transessuale”. O affetto dalla disforia di genere. Non lo si dovrebbe fare perché è solo con la pubertà e con le trasformazioni dell’inizio dell’adolescenza che la personalità comincia a delinearsi. La diagnosi, pertanto, non si dovrebbe fare fino agli 11-12 anni; solo dopo avviene la valutazione se prevedere un trattamento con i bloccanti ipotalamici e a quale età è “giusto” farlo. Ogni paese europeo si muove come meglio ritiene, come dicevo prima».

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TRANSESSUALITÀ – Un primo termine ambiguo è proprio “transessualità”. Capita di frequente che si faccia confusione tra identità di genere, orientamento sessuale, transessualità (come tra outing e coming out). Immaginare come sostituire “transessuali” non è facile. Altri concetti sono più accessibili. Dice Chianura: «L’identità di genere è abbastanza semplice da capire: la percezione di sé come maschi o come femmine. Così come il disturbo dell’identità di genere, cioè l’incongruenza della propria percezione rispetto al genere sessuale di appartenenza. Per quanto riguarda la transessualità è più complicato: intanto oggi si chiama “disforia di genere”. Il termine è cambiato nel DSM [Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali], il disturbo è stato sostituito dalla disforia: è un approccio lievemente meno patologizzante. Il termine “transessualismo” non si dovrebbe usare, ma sostituirlo è difficile. Dovremo dire varianza di genere? O persone con un disturbo disforico? Pazienti? Non sarebbe nemmeno corretto dal punto di vista diagnostico. Tante persone “transessuali” non hanno disturbi di genere. Alcuni non fanno il percorso di adeguamento. Insomma, non esiste una categoria omogenea. E questo rende difficile trovare una sola parola».

«BAMBINI TRANSESSUALI» – Se già è difficile con gli adulti, immaginiamo rispetto alle fasi evolutive in cui i tratti della personalità sono in formazione e non sono ancora definiti. Un altro problema del termine “transessuale” sta nel rimandare al sesso. «Il sesso non è così rilevante e rischia di monopolizzare semanticamente questo dominio complesso e determinato da molti fattori. “Bambini transessuali” è un’espressione davvero bizzarra. D’altra parte dobbiamo fare i conti con la realtà: non lo cambieremo almeno per i prossimi 50 anni. Continua a essere usato nei media, nei convegni, nelle conversazioni. E anche l’associazionismo usa questo termine». Ai termini, soprattutto quelli dal sapore patologizzante, dobbiamo fare particolare attenzione.

QUALE SOSTEGNO? – La difficoltà di diagnosticare non implica che non si possa fare nulla, ma suggerisce di avvicinarsi senza categorie troppo rigide. «Alcuni atteggiamenti possono cambiare con il tempo. La pubertà può essere un inferno: il tuo corpo va nella direzione opposta alla tua appartenenza di genere, e la tua identità si stabilizza in modo incongruo rispetto al tuo sesso biologico. Il trattamento per i bambini è diverso da quello degli adolescenti. Si può offrire un sostegno psicologico al bambino e alla famiglia. È molto importante sostenere le famiglie, per far sì che le cose che accadono siano vissute bene. I bambini possono stare bene, soprattutto in ambienti familiari e scolastici accoglienti. È importante evitare qualsiasi terapia riparativa o affermativa». Insomma il bambino dovrebbe essere lasciato comportarsi il più possibile secondo i suoi desideri. Non dimentichiamo che la pubertà è intrinsecamente un momento confuso e nebbioso, ma se il contesto è accogliente una parte di sofferenza può essere alleviata. Soprattutto quella estrinseca, quella determinata da un contesto di norme rigide e a volte del tutto ingiustificabili.

IL CONTESTO, LE REGOLE – Nel comunicato si faceva cenno a quei «segni di sofferenza [che] si palesano fin dalla tenera età, quando un bambino vuole giocare e vestirsi da femmina (o viceversa), o si rifiuta, per esempio, di urinare secondo le norme sessuali». Giocare da femmina e vestirsi da femmina? È abbastanza evidente che queste siano regole socialmente e culturalmente determinate, e che pensare che un bambino che vuole giocare con una bambola sia un bambino “sofferente” sia un problema dell’osservatore o del rigido normatore. In casi del genere è il giudizio che può causare una sofferenza, in modo analogo ai contesti razzisti e omofobi. «Il contesto familiare è importantissimo, perché se i bambini sono sostenuti e rassicurati saranno più forti all’esterno. Avranno più risorse e strumenti per affrontare eventuali difficoltà. In alcuni casi abbiamo ritenuto di non dover offrire un sostegno. Anche perché, pur con la massima apertura, è un messaggio: al bambino, alla famiglia, alla società. È un equilibrio difficile: posso dire “il bambino deve esprimersi come preferisce”, ma se l’ho preso in carico sto mandano un segnale contrastante. Viene dallo psicologo perché ha qualcosa che non va? Questa domanda vale per tutta la salute mentale. In quest’area specifica, con una dimensione culturale così forte, potrebbe essere ancora più importante aver presente questo aspetto simbolico».

LA LEGGE – In Italia è la legge del 14 aprile 1982 n. 164, «Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso», a regolare la riassegnazione sessuale. Secondo l’Adnkronos, «1 persona su 35.000 chiede il passaggio dal sesso femminile a quello maschile e 1 su 18.000 il contrario». Su Articolo29 ci sono alcune sentenze che riguardano la questione. Lo scorso giugno, la Cassazione ha sollevato il dubbio di costituzionalità sullo scioglimento automatico di un matrimonio in seguito al cambiamento di sesso, come indicato dalla legge 164: «La sentenza di rettificazione […] provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso».

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