Nucleare, i pro e i contro al di là di Fukushima

La comparazione dei  vantaggi e degli svantaggi dell’energia atomica

Lontano dalle necessità operative, si è sviluppato in Italia un dibattito lungo e articolato sul nucleare prima solo all’interno del settore energetico poi anche tra gli uomini politici. La scelta dell’abbandono è sembrata a lungo irreversibile, ma la crescita del costo dell’energia e l’evidenza del riscaldamento globale ha intensificato negli ultimi cinque anni la ricerca di argomentazioni pro o contro alimentate dall’evoluzione internazionale e dalle dinamiche interne. Per chiarire il contesto in cui si è arrivati a definire la legge italiana riportiamo in breve i più diffusi punti di contrasto. L’analisi dei pro e dei contro fornisce come unico dato certo che entrambi i partiti, quello pro e quello contro l’atomo, hanno fallito nel trovare le prove definitive per battere gli avversari.

Le centrali nucleari nel loro normale funzionamento sono un pericolo per la salute di chi vive nei pressi VS Le centrali hanno raggiunto un livello di sicurezza paragonabile a qualsiasi altro impianto industriale

Il funzionamento quotidiano di una centrale non costituisce un pericolo per gli abitanti, per le coltivazioni o per la qualità dell’ambiente circostante, anzi rispetto a qualsiasi altro impianto industriale l’impatto ambientale in termini di emissioni inquinanti o anche solo fastidiose (rumori, odori) è molto minore. Decenni di installazioni su diversi continenti costituiscono una casistica ormai inoppugnabile e non contestata nemmeno dai più acerrimi nemici, così come la generale accettazione verso gli impianti cresce o rimane alta in quasi tutte le comunità le ospitano. Inoltre in tutti i paesi più avanzati il gestore della centrale e le comunità locali si accordano per creare delle agenzie di monitoraggio, oltre a quella di solito affidata allo Stato (succede per legge in Francia e Germania ed è prassi negli Usa). Per condizioni “normali” di funzionamento s’intende però soprattutto che tutto il materiale radioattivo rimanga sempre chiuso in materiali schermanti e custodito all’interno della centrale. Non rappresentano momenti particolarmente critici il refueling (il cambio delle barre di uranio) e lo smistamento del carburante esausto. Il cambio delle barre avviene, a seconda degli impianti, ogni 12-18 mesi, e quelle estratte dal nocciolo rimangono nelle centrale a raffreddare in apposite piscine per un periodo anche superiore. Comunque il livello di radioattività nei dintorni delle centrali è imposto per legge e normalmente è minore della quantità di radiazioni che esistono in natura . Va sottolineato che le dosi minime imposte per legge in molti casi sono alquanto al di sotto delle dosi stabilite a livello sanitario nell’uso delle radioterapie e degli esami diagnostici. Esistono delle controindicazioni “minori”, ma comunque regolate, come ad esempio l’uso dell’acqua di cui le centrali hanno bisogno in gran quantità. Specie quelle poste sulle rive di un fiume devono stare attente a scaricare l’acqua usata nei vari circuiti di raffreddamento per non innalzare la temperatura a livelli innaturali per l’ecosistema. I diversi studi a lungo termine che dimostrano l’assenza di particolari incidenze nelle malattie connesse (tumori, disturbi tiroidei) con la radioattività. La maggior parte di questi sono realizzati negli Stati Uniti. I ricercatori indipendenti hanno spesso contestato la difficoltà di ottenere i dati che nascono dalla segretezza imposta, ma sempre meno giustificata. Un aspetto su cui l’industria nucleare deve molto migliorare dopo essersi giocata gran parte della sua credibilità. La pratica comune di “minimizzare e nascondere” non si è affievolita, come dimostrano le ripetute violazioni in Europa contestate ad operatori pubblici e privati riguardo il rigido protocollo di segnalazione previsto dalla Comunità. Spesso gli incidenti di minore entità vengono segnalati con colpevole ritardo. Si tratta in gran parte di malfunzionamenti che nella maggioranza dei casi non creano nessun pericolo, ma nel momento in cui si scoprono, specie se a mesi di distanza, alimentano la convinzione che si viva in costante pericolo e, nel caso succedesse qualcosa di grave, ne sarebbero tenuti all’oscuro.

Non ci si può fidare dell’industria, ha fornito dati distorti soprattutto in caso d’incidenti gravi VS Il sistema che sovrintende alla rete delle centrali nucleari è collaudato ed affidato ad organi internazionali indipendenti

La storia degli incidenti dà ragione ai diffidenti. L’enorme disparità di cifre delle varie indagini possono avere una spiegazione “politica”, ma alla fine la confusione che ne deriva riduce la credibilità delle autorità costituite e degli operatori, ormai più volte colti a minimizzare ben oltre il lecito. Esiste una scala internazionale per classificare gli eventi negativi chiamata Ines (International nuclear event scale) composta di 8 livelli (da 0 a 7). Da 1-3 sono classificati gli “incident” che si risolvono all’interno della centrale. Il livello 4 rappresenta il caso più grave senza rischi all’esterno, dove però viene messa a repentaglio la sicurezza dei lavoratori e si verificano casi di contaminazione da radiazioni. Da 5 a 7 ci sono i rari “accident” che prevedono una diffusione del pericolo intorno alla centrale (incendi, esplosioni, fughe radioattive). Chernobyl è il solo caso in cui si è raggiunto il livello massimo, mentre Three Miles Island fu classificato come 5. Gli eventi 0 sono quelli che pur producendo un arresto o una riduzione dell’attività della centrale non hanno risvolti apprezzabili nella sicurezza (sono chiamati Devianze). Ma non sono eventi neutri, come testimonia il caso della centrale tedesca di Kreummel: nel luglio scorso un trasformatore elettrico ha messo fuori linea la centrale, rianimando il dibattito elettorale sulla sicurezza e l’utilizzo dell’atomo in Germania. L’intero globo è monitorato dall’Aiea, che colleziona – con l’aiuto di tutti gli Stati membri – gli eventi piccoli e grandi (dagli incidenti in centrali al malfunzionamento di un radiografo). Esiste un sistema, non accessibile al pubblico, chiamato Irs dove i governi, lo staff Aiea e gli operatori riportano gli incidenti e le procedure adottate per farvi fronte. Dal 2001 esiste anche un database pubblico su Internet  aggiornato quotidianamente, ma la stessa associazione invita a non considerarlo come esaustivo o tantomeno uno strumento di sicurezza. Le statistiche dicono che quella nucleare è una delle industria con minor vittime e incidenti sul lavoro in assoluto. Nel caso della Francia viene dietro anche al tessile e alle calzature . Scontrarsi sulla probabilità di un incidente è facile perché è impossibile da stabilire oggettivamente. I sostenitori ricordano che l’intero parco di centrali al mondo in mezzo secolo ha collezionato 13mila ore di funzionamento con un numero di incidenti trascurabile, mentre gli scettici hanno gioco facile a ribadire che l’aumento del numero delle centrali e dell’età media delle stesse fa crescere il rischio che una qualche catastrofe accada. Ci sono dei criteri di sicurezza internazionali, come la presenza di almeno tre tipi di barriera tra qualsiasi tipo di materiale radioattivo e l’ambiente esterno e i già citati sistemi di sicurezza passiva. Ancora una volta il paragone più calzante è quello dell’aereo: non sono i numeri e le statistiche a rassicurarci sulla sicurezza del mezzo, ma l’abitudine e, alla fine dei conti, la necessità.

Non esistono in Italia siti adatti dove costruire una centrale, tra rischio sismico e idrogeologico qualsiasi scelta sarebbe più rischiosa che in altri paesi VS Si può puntare ad costruire una centrale per ogni regione d’Italia

Le considerazioni politiche e sociali necessarie a definire il sito adatto o, peggio ancora, “ideale” per la costruzione sono tante e tali da rendere possibile, o impossibile, praticamente ogni classificazione. Ciascun criterio preso singolarmente potrebbe essere invalidato dimostrando che in qualche parte del mondo c’è una centrale che lo contravviene: in Giappone praticamente non esistono zone non a rischio sismico e nel passato diverse centrali nipponiche sono state coinvolte in terremoti anche con conseguenze pesanti per le strutture, ma senza incidenti gravi . In generale le installazioni vengono realizzate con i maggiori criteri antisismici e il nocciolo è sistemato al di sotto del livello del suolo. Le centrali nucleari poste sui grandi fiumi europei dimostrano che le onde di piena non sono un pericolo particolarmente sentito. Anche l’avvertenza di utilizzare posti a scarsa densità abitativa ha perso di efficacia proprio per l’aumento delle aree urbane che in molti casi lambiscono le centrali a poche decine di chilometri di distanza (casi New York e Parigi). Naturalmente questo non autorizza a difendere la scelta di un sito a continuo rischio frana o al centro di una città. Di contro, l’affermazione sulla “intercambiabilità” delle regioni italiane sembra più dettata dalla necessità di giustificare a priori qualunque scelta e sfruttare la disponibilità di qualche governatore e di un certo elettorato. Vedremo nel dettaglio del capitolo 5 “Dove” l’evoluzione della vicenda, per ora basti sottolineare che nessuna circostanza naturale ci esimerà dal prendere delle decisioni discutibili e la scelta sarà ben più politica che tecnica. La nuova legge sul nucleare lascia alla neonata Agenzia per la sicurezza nucleare il compito di una nuova fase di studio sul territorio nazionale, che procederà per esclusioni successive, indicando le zone sicuramente inadatte e lasciando ai consorzi privati la scelta dei posti ritenuti più adeguati. Seguendo lo stesso schema va detto che i requisiti minimi sono definiti ancora una volta dalla Aiea  seguendo tre parametri: sismicità, stabilità idrogeologica e densità abitativa. Se le disposizioni nazionali le riproponessero pedissequamente, le zone “oggettivamente” non utilizzabili sarebbero ridotte, ed una centrale potrebbe essere posizionata in almeno in quasi tutte le regioni (escluse per intero solo Val d’Aosta, Trentino e Umbria). Paradossalmente sembrano più stringenti le necessità logistiche imposte dalla centrale stessa: i reattori di terza generazione sono impianti di grandi dimensioni e hanno bisogno di un grande quantitativo d’acqua. Gli Epr in costruzione a Flamanville e Okiluoto hanno uno sbocco sul mare per rendere anche più facile e sicuro il trasporto di carburante e scorie. Riproporre questo schema basterebbe ad escludere però una manciata di regioni politicamente importanti come il Piemonte e la Lombardia, che hanno invece ospitato le centrali del passato.

Le centrali inquinano il sito dove si trovano per millenni VS Sono stabilimenti a “tempo” , in 30-50 anni si chiude il ciclo produttivo e si completa il decommissioning riportando allo stato iniziale

Come ben sanno alcuni residenti dei comuni di Caorso e Trino Vercellese, l’eredità del nucleare è ben difficile da dimenticare. I ritardi italiani si aggiungono ad una casistica internazionale che dimostra come siano pochissimi i siti utilizzati per installazione nucleare poi riconvertiti ad attività diverse ( si dice in gergo siano tornati “brownfield”). La scelta nucleare di solito è irreversibile, ma la contaminazione e il deserto radioattivo c’entrano poco. A favore dei nuclearisti va riconosciuto che le comunità difficilmente rinunciano al nucleare una volta che questo è diventato parte del tessuto produttivo, e ai primi reattori si sono aggiunte nuove unità, centri di ricerca e un indotto consistente. Gli impianti che giungono alla fine del loro ciclo naturale sono spesso già affiancati da altri reattori. Naturalmente quello che per i favorevoli è un segno della sostenibilità del nucleare civile, per i contrari è solo una trappola; ben pagata, ma pur sempre una trappola. Una volta accettata un’installazione non si può più tornare indietro. I casi forse più importanti sono il New Mexico negli Usa e la zona di Sellafield nel Nord dell’Inghilterra, la cui “vocazione” nucleare risale agli anni ’40 e dove si alternano o convivono, centri di ricerca, centrali e attività di processamento del combustibile e delle scorie.

La gestione delle scorie derivanti dal processo di fissione e lo smantellamento delle centrali ha dei costi enormi che finiscono per essere scaricati sui cittadini o sulle bollettVS Il costo e le procedure per la gestione dei residui sono calcolabili e sostenibili all’interno dello stesso sistema dei costi di progettazione/produzione/ smantellamento. Inoltre le scorie possono diventare a loro volta ulteriore fonte di guadagno.

Il dibattito sulla gestione delle scorie di solito sovrappone due aspetti collegati: chi paga i costi dello smantellamento delle centrali e la sistemazione a lungo termine (se non definitiva) delle scorie. Il primo aspetto è comunemente regolato dall’imposizione per gli operatori di accantonamenti fissi dei guadagni della vendita di elettricità da impiegare nello smantellamento. La pratica ha portato i paesi con più forte tradizione nucleare a tenere bassi questi accantonamenti come forma di sovvenzione all’energia nucleare. Lo Stato, in Francia e negli Usa, si è poi occupato di coprire i costi reali, in cambio di energia a basso prezzo offerta a imprese e cittadini. I fondi vengono accantonati per essere utilizzati fino a 40 anni dopo e quindi è oggettivamente difficile quantificare l’ammontare esatto, senza contare che la gestione delle scorie vere e proprie ha tempi talmente lunghi che è giusto che siano proprio poteri pubblici ad occuparsene. In Italia il sistema si è rivelato ancora più inefficiente visto che il costo del decommissioning si paga mese dopo mese attraverso una specifica componente della tariffa (A2) eliminando ogni incentivo al contenimento dei costi: i fondi sono praticamente infiniti. D’altronde, in un contesto energetico in cui le fonti fossili devono pagare per l’anidride carbonica emessa, è giusto che il prezzo del decommissioning sia alto e attualizzato periodicamente, anche se questo riduce non di poco il margine di cui l’energia atomica gode quando è attiva. Il confronto andrebbe fatto periodicamente con il costo dei diritti di emissione di CO2. Visto che entrambi sono prezzi alle esternalità  (cioè ai danni) che dovrebbero pagare le generazioni future. La tariffazione dell’energia nucleare che dovrà essere definita per legge dovrebbe occuparsi di trovare un equilibrio in tal senso. Quanto al destino definitivo degli scarti da fissione (materiale radioattivo pericoloso per centinaia di migliaia di anni), questo è il principale punto debole per l’intera filiera nucleare. Per ora l’utilizzo del denaro pubblico e di quello degli operatori si è diviso tra la ricerca di soluzioni definitive e la convinzione diffusa che le conoscenze scientifiche siano ancora insufficienti. Esemplare la posizione riguardo degli Stati Uniti: il ministro per l’energia e premio Nobel per la fisica Stephen Chu ha definito il problema delle scorie nucleari “risolvibile grazie alla ricerca scientifica” , quando l’amministrazione precedente ha speso poco meno di dieci miliardi di dollari per un deposito sotterraneo che non sarà mai utilizzato. Esistono un mercato e un’industria consolidata che si occupa di contenere e rendere inerti materiali resi radioattivi dal contatto con la fissione, mentre per il carburante dei reattori la ricerca sta lavorando sia per riciclarlo (specie il plutonio nelle centrali di terza e quarta generazione), sia per ridurne la vita radioattiva.

Non è possibile scindere il lato civile dell’atomo da quello militare: significa aprire la porta alle bombe nucleari e all’uranio impoverito VS Non esiste una connessione obbligatoria, con gli opportuni accorgimenti presi a livello internazionale qualunque paese può aprire una centrale

I militari hanno da sempre deciso le sorti del nucleare, negli Usa e in Francia tutta l’industria civile ha assunto standard utili all’arsenale atomico, come l’uso dell’uranio arricchito invece di quello naturale. Esistono però anche esempi opposti altrettanto longevi come la Svezia e il Giappone, dove la ricerca nucleare non ha mai avuto strascichi militari. Il caso spesso citato sulla pericolosità intrinseca dell’atomo è quella canadese. La tecnologia Candu utilizza uranio naturale (di cui il paese nordamericano è grande estrattore), ma le scorie prodotte contengono una grande quantità di plutonio utile a costruire le bombe. Proprio questa particolarità ha fatto sì che l’India trasformasse l’uso civile di nuovo in uso militare realizzando un test nel 1974, e la scelta di sfruttare il plutonio ha innescato una nuova corsa agli armamenti con il Pakistan. In ogni caso, gran parte delle tecnologie dei reattori commerciarli in uso non sono utilizzabili a scopo militare, quindi l’attenzione si è concentrata sulle strutture a monte: gli impianti in grado di arricchire l’uranio, cioè aumentare la quantità dell’isotopo U 235 (basta un aumento al 3-7% per una centrale, mentre per le armi si sale anche al 70-80%). È il caso dell’ Iran che sta costruendo le sue centrifughe per l’arricchimento, ma negli anni Settanta la stessa attenzione fu rivolta ad Israele e negli anni Ottanta nei confronti dell’Iraq. L’Aiea ha il compito di monitorare l’andamento del pericolo minerale del mondo, e gli Stati Uniti da tempo spingono per la creazione di una “banca internazionale dell’uranio” per tracciare tutti i carichi di elementi radioattivi passibili di utilizzo bellico, allo scopo di facilitare l’esportazione delle centrali nei paesi in via di sviluppo come si sta sperimentando negli Emirati arabi. La Svezia aveva tecnologia e risorse e ha scelto di non diventare una potenza atomica, il Pakistan o la Corea del Nord non avevano nessuno dei due e ci sono riuscite: è la volontà dei governi a creare le opportunità per la proliferazione nucleare e non le centrali. La moratoria, lo spegnimento o persino la sparizione di tutte le centrali del mondo non metterebbe l’umanità al riparo dall’uso della bomba atomica, visto la disponibilità dell’uranio in natura e del plutonio negli arsenali militari. Stesso discorso di “opportunità” va fatto per l’uranio impoverito: prodotto di scarto del ciclo di combustibile, debolmente radioattivo, è stato utilizzato soprattutto dagli Stati Uniti per realizzare proiettili visto il suo alto peso specifico. Ha numerose controindicazioni perché ancor prima di essere radioattivo è chimicamente velenoso se inalato o ingerito in quantità sufficienti (come del resto il piombo).  Il riutilizzo dell’uranio impoverito, per qualsiasi scopo, non è importante al fine del ciclo del combustibile, così come la scelta degli eserciti di utilizzarlo non ha nessuna connessione con la presenza in quelle nazioni di un apparato nucleare.

L’uranio sta per finire, quindi non solo il nucleare non può essere una soluzione duratura, ma l’impennarsi del costo del carburante lo renderebbe costoso come o più del petrolio VS Il nucleare è la forma più economica di produzione di energia elettrica l’aumento del suo utilizzo non muterà i suoi fondamentali economici

Le previsioni sulla fine dell’uranio ricalcano quella delle altre materie prime, a cominciare dal petrolio. Il fabbisogno annuale di uranio naturale è intorno alle 69 mila tonnelate , mentre le riserve provate secondo le Wna si aggirano a intorno ai 4,3 milioni di tonnellate: a questo ritmo di consumo si esaurirebbe nel giro di 70 anni, ancora meno con il prevedibile aumento del parco centrali. Esistono stime più pessimiste (3,3 milioni di tonnellate) che pongono la fine delle miniere al 2060. Ma esattamente come il petrolio, i modelli di esaurimento basati sul rapporto consumo/riserve si sono rilevati troppo variabili per diventare attendibili. Segnali più puntuali arrivano dal mercato dell’uranio arricchito, il vero carburante, dove la disponibilità del minerale naturale è solo uno degli elementi. Ad esempio è cresciuta la quota di uranio già arricchito che arriva dalle testate nucleari, che ormai fornisce quasi il 30% del totale del totale considerando che l’uranio per uso militare è molto più pregiato (contiene fino a 10 volte l’isotopo U 235, quello decisivo per suscitare la fissione). Di contro la produzione da miniera non va oltre le 41mila tonnellate, contro una capacità del 25% superiore (e in crescita). L’utilizzo estensivo delle riserve militari potrebbe aggiungere fino a 10 anni alle previsioni di esaurimento. Un altro elemento  è l’uso del combustibile riciclato dalle centrali esistenti (Mox) che dovrebbe mantenere bassa la richiesta di nuovo yellow cake  (l’ossido di uranio che è la base per l’arricchimento). Nonostante questo il prezzo per l’ossido di uranio in 15 anni è passato dai 10 dollari del 2002 fino ai 135 dell’agosto 2007, poi è arrivata la crisi economica  è il prezzo per l’oncia (poco meno di mezzo chilo)  è sceso verso 48 dollari nell’agosto 2009  . L’industria non mostra segni di difficoltà o particolare stress da domanda, i principali paesi produttori (Canada, Kazakistan e Australia detengono il 60% delle riserve) continuano ad aumentare i propri  target di estrazione. Anche se la volatilità dei prezzi si manterrà alta, va ricordato che il prezzo del combustibile incide per il 5% o al massimo il 10% sul prezzo del KWh. Tralasciando le ipotesi di ulteriore reperimento (come concentrare l’uranio disperso negli oceani) o lo spostamento verso materiali radioattivi diversi (Torio o Trizio), rimaste ancora a livello teorico o sperimentale, la prospettiva più consistente che dà al nucleare possibilità di vita per il prossimo secolo è l’utilizzo del plutonio e dell’uranio impoverito nei reattori raffreddati al sodio (IV generazione). Entrambi sono prodotti come scoria dell’attuale ciclo dei reattori ad acqua.

Non è vero che le centrali sono Carbon free, i miglioramenti realizzabili in termini di minori emissioni si possono ottenere riducendo i consumi di energia e con un maggior uso delle energie rinnovabili VS La fissione non emette CO2, e questo la rende un strumento-chiave nella lotta al cambiamento climatico

È il vero punto critico, visto che questa è la base della nuova legittimazione del nucleare a livello mondiale. Non sono mancati i tentativi di chiarire quanto carbon free sia questa tecnologia: il processo di arricchimento dell’uranio, sicuramente il più complesso ciclo di carburante tra le materie prime utilizzate, e le centrali che impiegano un decennio per essere costruite impiegando centinaia di tonnellate di cemento e metallo hanno un impatto ambientale notevole.  Uno degli studi più citati è quello dell’Oxford Research Group  che sommando questi momenti calcola in una produzione tre 96 e 134 grammi di CO2 fino ad eguagliare, in alcuni casi i 350 grammi per KWh di una centrale a gas. Una cifra che potrebbe anche essere ritoccata all’insù se l’utilizzo del combustibile riciclato attraverso il Mox  , che richiede ulteriore trattamento, dovesse crescere ancora di più  Dal confronto però il nucleare esce comunque vincitore perché allargando anche per le altre fonti il calcolo delle emissioni al carburante e alle infrastrutture, l’atomo rimane tra la prima o la seconda tecnologia meno climalterante. L’approccio “complessivo” all’effetto serra è stato tentato anche dall’industria del carbone anni prima quando temeva la maggior pulizia del gas lo avrebbe sostituito come carburante principe nella produzione elettrica, cosa che puntualmente avvenuta.  Una centrale nucleare produce 219 tonnellate di CO2  – secondo l’ultimo rapporto del Wwf in materia – e si tratta di un valore minimamente paragonabile ai 4-7 milioni di tonnellate di anidride carbonica prodotte da una centrale termoelettrica convenzionale. Si può fare un’ulteriore considerazione a favore del nucleare assumendo che una centrale nel suo intero ciclo di vita pareggi o superi quelli di  una centrale a gas. La CO2 prodotta nel processo di arricchimento dell’uranio, nella costruzione e nel decommissioning è “traslata” nello spazio e nel tempo. Gli impianti di processamento emettono in paesi diversi da quelli in cui poi l’uranio viene utilizzato, questo non fa nessuna differenza per il riscaldamento globale, ma conta ai fini dei piani nazionali di emissione, specie per il meccanismo instaurato in Europa. Inoltre se la maggior parte delle emissioni si concentra nel decommisioning significa che   viene rimandata di 20-30 anni nel futuro quando si avranno tecnologia più efficienti dal questo punto di vista.  L’ultimo punto, forse il decisivo, è che al di là della certezza dei numeri l’accettazione politica per il nucleare, compreso in tutti i piani più seri di lotta al riscaldamento la rende una sorta di standard internazionale, nasce dall’esigenza di differenziare le fonti di approvvigionamento anche a parità di emissioni.

L’Italia non ha bisogno del nucleare, può ottenere gli stessi risultati investendo nelle energie rinnovabili e nell’efficienza energetica VS Senza nucleare pagheremo di più l’energia elettrica, pagheremo lo sforamento degli obiettivi di riduzione dei gas serra e l’intera economia perderà in competitività

È la declinazione italiana del dibattito sulla credibilità “verde” del nucleare, essendo la più grande economia al mondo che non usa elettricità da centrali nucleari (se non per la quota importata dalla Francia) siamo in qualche modo una “case history” di rilevanza globale. Gli entusiasti del ritorno atomico promettono che si potrebbe  abbattere di 28 milioni di tonnellate di CO2, vale a dire il 19% delle emissioni annuali dell’industria e della produzione elettrica, grazie al ritorno del nucleare; gli ecologisti rispondono che anche se nel 2050 si triplicassero la dotazione nucleare nel mondo si eviterebbero 5 miliardi di tonnellate, mentre ad un costo minore investimenti in potenza analoga nelle rinnovabili il risparmio sarebbe di 15 miliardi di tonnellate  . Però nemmeno sommando i due risparmi si arriverebbe ad una quota ritenuta sufficiente per stabilizzare il clima. Ricordiamo che l’anno base del protocollo di Kyoto è il 1990 e in questi anni il sistema elettrico nazionale si è molto evoluto, passando da una situazione di pericolosa sottocapacità e conseguente dipendenza dall’estero (dimostrata dal black out nazionale del 2003) ad una di maggior sicurezza. Miglioramento ottenuto grazie alla costruzione di nuove centrali a gas e alla riconversione di vecchi impianti alla stessa tecnologia. Tra le fonti fossili, il metano è la meno penalizzata dalla legislazione sulle emissioni e quindi già il nostro mix energetico può essere considerato più “pulito” di quello di altri paesi come la Germania e l’Inghilterra. Si può ancora migliorare? Considerando sfruttata al massimo la dotazione idroelettrica, la strada di un maggior numero di centrali eoliche e di impianti solari è già tracciata, affiancata da una riduzione degli sprechi dell’energia (chiamati Negawatt). Gli scettici fanno notare che già ora l’Italia ha un rapporto di energia spesa in rapporto al Pil tra i migliori del mondo industrializzato e che le potenzialità del vento, la tecnologia più matura, nel nostro paese è piuttosto bassa rispetto a chi ha uno sbocco sull’oceano. Inoltre le pale eoliche stanno sperimentando le stesse difficoltà di accettazione tra le comunità locali delle centrali tradizionali. Il fotovoltaico non ha ancora la forza per incidere in grandi numeri, ma la sua capillare diffusione opportunamente facilitata (con incentivi economici e semplificazioni amministrative) si fa sentire già ora, riducendo la domanda di energia nei confronti delle fonti tradizionali.  Anche considerando la generazione diffusa, l’efficienza energetica può far “sparire”, secondo i più ottimisti, circa il 20-30% dell’attuale consumo. Il   G8   dei   Ministri   dell’Ambiente   di   Siracusa nell’aprile  2009,    ha   fatto   proprio   il  più   ambizioso     scenario    di   mitigazione     pubblicato dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Energy Technology Pespectives 2008, Blue Scenario), e ha sottolineato che le emissioni potrebbero essere abbattute del 50% entro il 2050 con un contributo proveniente prevalentemente da quattro fattori: per oltre il 50% dall’efficienza energetica, per il 21% dalle fonti rinnovabili, per il 19% dalla tecnologia di cattura e sequestro della CO2 e per il restante 6% dalla fonte nucleare. In realtà, alcune delle tecnologie previste in tale scenario non sono ancora disponibili o devono subire sostanziali  miglioramenti e riduzioni di costo, mentre il contributo del nucleare è sicuro. Parlando di evoluzioni future nessuno può dire di aver ragione. I modelli prodotti in questi anni hanno sempre sistematicamente sottovalutato la crescita delle energie rinnovabili, mentre la crisi ha spostato i traguardi di produzione è consumo attesi solo per il 2010 di quasi un decennio (dando per scontato che il recupero ai livelli del 2007 sarà lento, altra ipotesi tutta da verificare). Rimane il problema che le decisioni devono essere prese ora. “È il caso di aspettare e di spendere tutto quel denaro per l’atomo?” è un’affermazione molto condivisa nel campo antinuclearista ma che presuppone l’utilizzo di risorse pubbliche a favore del nucleare, eventualità non prevista dalle norme nazionali. Né si capisce come il governo possa imporre agli investitori privati (le società Enel e Edf e i loro futuri soci) di dirottare i capitali che vogliono impiegare per la costruzione delle centrali in programmi d’investimento per le energie rinnovabili. In realtà il duello rinnovabili-nucleare in Italia potrebbe e dovrebbe non porsi mai. Gli obblighi di Kyoto coprono il quadrienno 2008-2012, la direttiva europea pone dei traguardi stringenti fino al 2020, un decennio in cui eolico e solare dovranno dimostrare di poter arrivare al 20% dell’offerta di energia primaria senza che sia prodotto un solo Kwh da fonte nucleare. Il prezzo dell’energia sempre più alto farà da volano automatico per l’imporsi di una maggior attenzione all’efficienza energetica. Nel 2018, o qualche anno dopo, quando la prima centrale dovrebbe entrare in funzione ci saranno due scenari: nel  migliore dei casi le rinnovabili saranno già affermate e lasceranno chi ha puntato sulle centrali a contendersi il mercato con le fonti fossili. Nel secondo caso, il ritardo sul taglio delle emissioni sarà talmente ampio che una o due centrali nucleari saranno una “toppa” utile ma largamente insufficiente. Quindi l’unica assicurazione che i sostenitori dell’inutilità dell’atomo possono chiedere a ragione è proprio di poter sfruttare questo decennio senza penalizzazioni, cioè che i meccanismi d’incentivazione non vengano modificati nei prossimi anni. Su questo punto la normativa europea e le dure sanzione che prevede mettono al riparo da maggioranze politiche poco sensibili alla tematica del cambio climatico.

Share this article