Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur

Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata.

Così racconta quella sagoma di Tito Livio. Gli ambasciatori di Sagunto così si esprimevano a Roma, davanti al Senato, qualche giorno fa, nel 219 a.C. Erano giunti nella capitale per sollecitare un intervento a loro favore da parte della grande potenza occidentale, la quale tergiversò per otto mesi, al termine dei quali la città spagnola, stremata dall’assedio, si arrese ad Annibale, che la rase al suolo. Solo dopo questo fatto i romani, preoccupati più per l’ascesa della potenza cartaginese che sconvolti per la distruzione di Sagunto, intrapresero la Seconda Guerra Punica, che portò alla rovina di Cartagine. Sono passati 2230 anni e sul fronte occidentale non c’è nulla di nuovo. Sempre qui a discutere, mentre il mondo brucia. Il Nord Africa ci chiama disperato, e noi qui per settimane a soppesare e, mentre noi soppesiamo, i civili muoiono. Ora l’Occidente ha preso mezza decisione per salvare Bengasi dal massacro dei suoi cittadini. E questo è ciò che possiamo imparare da Livio sulla questione libica. Resta solo una domanda: cos’è Bengasi, Sagunto o Cartagine?

GALLI CENOMANI – Ma la Seconda Guerra Punica ha per noi italiani un ulteriore insegnamento. Iniziata la guerra, Annibale arrivò con i famosi elefanti, e fece vedere le stelle ai Romani. I Galli Cenomani (lombardi e veneti) si unirono ai Romani per combattere contro Annibale, ma Annibale, che era un grande generale, li sconfisse al lago Trasimeno. Poi fece la mossa crudele ma astuta di trucidare i romani e liberare gli Italici, per spingere gli Italici ad abbandonare Roma al suo destino al fine di salvarsi la pelle, ma gli alleati non tradirono i Romani. Scelsero di restare con Roma, ma il disastro continuò e Annibale sbaragliò i romani a Canne. Poteva essere la fine, ma non fu così.

L’ELMO DI GIORGIO – Arrivò Publio Cornelio Scipione, che cambiò le sorti della guerra, e della storia. 17 anni dopo la distruzione di Sagunto, nel 202 a.C., con la battaglia di Zama finisce Cartagine, che non si risolleverà mai più da questo colpo. Nel 219 Scipione ha 16 anni, nel 202, quando distrugge il peggior nemico di Roma e diventa Publio Cornelio Scipione l’Africano, ne ha 33. Roma ebbe la forza di dare ai suoi condottieri il tempo di crescere, e vinse perché tutta l’Italia di allora decise di combattere insieme. Perdeva già gran tempo in discussioni sterili, ma almeno ogni tanto decideva qualcosa. Scipione è stato un padre della patria duemila anni prima di Garibaldi, 150 anni dopo il quale è arrivato Giorgio. Mitico Giorgio, che ancora governa da uno dei colli dell’Urbe, che è stato capace di aggiungere il verde e il bianco al suo cuore rosso per trasformarsi nell’ultimo padre della patria, in un anziano eroe del Risorgimento. Non pare vero, ma i valori della patria ora sono affidati alle mani della sinistra, che ne deve diventare custode per amore di quel concetto di libertà che le dovrebbe essere sommamente caro. O almeno questa è la strada che ha indicato Giorgio, quando dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Avendo deciso di intervenire in Libia, la prima cosa che ha detto il Governo è che il primo a essere avvisato di ogni mossa sarà Napolitano. È lui oggi il nostro condottiero.

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