“Le ragazzine non possono lamentarsi se poi le stuprano”

Qual è la scusa più abusata quando non volete esporvi in prima persona? “Un mio amico mi ha detto”, “un mio amico avrebbe bisogno di”. L’oggetto può variare a seconda dell’età e delle circostanze. La regola generale è: più l’argomento è considerato “proibito”, indicibile o moralmente controverso, più ci si rifugerà dietro alle necessità altrui.

Marco Cubeddu, dopo aver notato che molte ragazzine adolescenti se ne vanno in giro in pantaloncini (Ragazze in shorts, ma vi siete viste?, è il titolo del suo pezzo uscito oggi su Il Secolo XIX), passa la parola a una sua amica.

Sgomento dall’eccesso di carne scoperta per le strade di Roma, della Sardegna e di Genova, chiede lumi alle sue ex compagne delle medie. “Ho chiesto alle mie compagne (non esattamente bigotte): da donne, erano perplesse. Secondo una di loro “non possono lamentarsi se poi le stuprano”.”

Anche se subito dopo Cubeddu commenta che non può esserci alcuna giustificazione alla “m’hai provocato”, non è chiaro perché le sue ex compagne di medie dovrebbero saperla lunga. In quanto donne? In quanto amiche sue?

E perché non provare a chiedere direttamente alle ragazzine? Probabilmente perché tutti immaginiamo quale sarebbe stata la risposta alla domanda “cosa pensi di ottenere?”. O peggio alla domanda: “perché ti vesti da sgualdrina?”.

Non è moralismo, ci avverte, è solo che voi vi vestite da sgualdrine e noi non ci capacitiamo e soprattutto fate attenzione perché “nessuno dei miei amici si fidanzerebbe con una che si veste così. E nessuna delle mie amiche si vestirebbe così”.

Non mi soffermo sulle questioni toccate – dalla parità ai mezzi con cui ottenerla, dalle “differenze biologiche e di genere che esaltano entrambi i sessi e non sono in contrasto con il successo” (?) alla convinzione che “le violenze domestiche nascono da situazioni in cui, donne con scarsa personalità, si legano a zotici della peggior risma” – ma non posso non condividere con voi la domanda finale, che non mi farà dormire per le prossime settimane: “Siamo così convinti che mettersi il velo sia prigione e i minishorts siano libertà?”.

No, non lo siamo, ma forse non è dai centimetri di culo da coprire che passa la “fine delle discriminazioni”. E probabilmente nemmeno dai centimetri di culo scoperti, ma dalla possibilità di scegliere quanto culo mostrare e a chi, correndo il rischio di esporsi alla domanda “Continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”, che vale per ogni circostanza. Magari potremmo intravedere un inizio nella rimozione della pavloviana identificazione tra nudità e disponibilità sessuale, anzi tra nudità e troiaggine. Che poi, visti i tempi, dovremmo investire qualche minuto per definire “sgualdrina” e tutti i sinonimi. I mezzi indicati da Curbeddu, cioè “battaglie di lungo periodo, fragili processi storici e fasi di transizione, che muovono da basi profonde”, potrebbero cominciare proprio dalla dismissione di una visione tanto rigida dei ruoli predefiniti dal genere: l’uomo cacciatore, l’osservatore che guarda con cupidigia ragazzine poco vestite e si domanda “perché si vestono da sgualdrine?”, e la donna oggetto della caccia e della cupidigia.

Una mia amica m’ha detto che anche i ragazzini vanno in giro scoperti e che una volta lei è stata aggredita con un maglione a collo alto.

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