Arabia Saudita: come depredare le casse dello Stato e vivere da Re

28/02/2011 di Leonardo Bianchi

Un cable di WikiLeaks del 1996 rivela che lo stile di vita della Famiglia Reale costa ai sudditi miliardi di dollari all’anno

Quanto può costare una rivoluzione? Secondo il re dell’Arabia Saudita Abdullah 37 milioni di dollari: è questa la cifra messa sul tavolo delle “riforme” per placare gli animi dei sudditi sauditi e per evitare che le rivolte che stanno travolgendo il mondo arabo si propaghino fino al paese del petrolio. Solo il tempo, ovviamente, potrà dirci se questa mossa eviterà lo scoppio delle proteste. Ma le cause del malcontento sono ormai sotto gli occhi di tutti.

DA DOVE VENGONO TUTTI QUEI SOLDI? – Un cable del Dipartimento di Stato del 1996 pubblicato da WikiLeaks e analizzato da Reuters spiega in dettaglio il sistema finanziario con cui si nutre la famiglia reale e l’enorme dissipazione di denaro compiuta da questa – una serie incredibile di sprechi che non solo ha depredato i sauditi, ma ha anche lacerato la coesione sociale del paese. Il dispaccio diplomatico è intitolato “La ricchezza della Famiglia Reale: dove prendono tutti quei soldi?” e analizza appunto il “welfare” elaborato da re e principi per mantenere il loro gargantuesco stile di vita.

STIPENDI D’ORO – Il meccanismo più utilizzato per trasferire la ricchezza dalle casse dello stato alla Famiglia è il sistema formalizzato degli stipendi reali, gestito dall'”Ufficio delle Regole e delle Decisioni” del Ministero delle Finanze. Questi stipendi (che funzionano più come sussidi) già nella metà degli anni Novanta partivano da 800 dollari al mese (“per il membro più basso di grado del più lontano ramo della famiglia”) e arrivavano fino a 200mila/270mila dollari per i figli di Abdul-Aziz Ibn Saud, il fondatore della moderna Arabia Saudita. Un sistema che costava all’incirca 2 miliardi di dollari, su un budget annuale di 40 miliardi.

PRESTITI ED ESPROPRI REALI – Un altro stratagemma per succhiare soldi era quello, semplice e diretto, di farsi prestare soldi dalle dodici banche commerciali del paese e di non restituirli. Poi c’erano i cosidetti “espropri reali”, portati avanti da “principi avidi” nei confronti di piccoli e grandi proprietari terrieri: l’intento era quello di rivenderli a prezzi gonfiati al governo in vista di un fantomatico “progetto futuro”. Un importante uomo d’affari saudita afferma nel cable che questi espropri erano “la ragione per cui i sauditi più ricchi tenevano i soldi all’estero, per minimizzare i rischi”. Anche la “sponsorizzazione” di lavoratori stranieri era un affare piuttosto lucroso: a ciascuno di essi veniva infatti chiesta una specie di tassa tra i 30 e 150 dollari per permettergli di restare in Arabia Saudita. Nel cable si dice che ogni principe sponsorizzava più di un centinaio di stranieri all’anno.

IL MACIGNO DELLA CORRUZIONE – Già nel 1996 l’ambasciatore americano dell’epoca avvertiva che una simile condotta poteva portare ad un’insurrezione di massa. In un cable del 2007, tuttavia, si evidenziano i timidi sforzi riformisti fatti dal re Abdullah per invertire la tendenza o quantomeno ridurre la corruzione e la disparità economica della regione – misure che tra l’altro hanno provocato un diffuso malcontento all’interno della Famiglia. “Il Re Abdullah ha più volte detto ai suoi fratelli di avere più di ottant’anni e di non voler fronteggiare il giudizio divino con ‘il macigno della corruzione sulle mie spalle'”, si legge in quest’ultimo cable. Ma ormai potrebbe essere troppo tardi.

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