Ambra Angiolini su Dario Fo: «Quel giorno in cui festeggiammo il Nobel all’autogrill!»

13/10/2016 di Boris Sollazzo

AMBRA ANGIOLINI DARIO FO –

Eravamo tutti convinti di sapere chi fosse Ambra. La conoscevamo, come i grandi divi, solo con il nome. E in mano invece avevamo solo l’icona di una trasmissione cult e le critiche successive, perché lei, fin da subito, ci fece capire che voleva uscire fuori dagli stereotipi che le attaccavano subito. Seguire i suoi talenti e i suoi desideri. Chissà, probabilmente questo affascinò un maestro come Dario Fo che accettò, in uno dei più bei format inventati dalla Rai (e che presto tornerà, prodotto da Magnolia), Milano-Roma, di viaggiare con lei. Lui icona del teatro e della cultura, candidato al Nobel, lei stella televisiva che occupava l’immaginario catodico, e non solo, di un paese. Il vecchio e la bambina: ne nacque un’intesa sorprendente ed emozionante, suggellata da quel foglio “hai vinto il Nobel” che li ha portati, entrambi, nella storia. Ambra Angiolini decide di raccontare a Giornalettismo quel giorno.

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Come avvenne questo incontro? Avevi paura? Sei stata tu a chiederlo come compagno di viaggio?

No, non avevo paura, ma ero emozionata. E, ti dirò, all’inizio non mi hanno proposto lui gli autori di Milano-Roma. Non solo lui: mi proposero Carmelo Bene o Dario Fo. Era comunque in ogni caso una proposta superlusso, tipo la carta di credito che sblocca i piani, era meraviglioso avere un’opportunità di questo tipo. Con la sfrontatezza tipica di quell’età, scelsi. Carmelo Bene l’avevo conosciuto, per me Dario, invece, era un Mistero. L’unico neo era che lui non aveva la patente, io ce l’avevo da troppo poco tempo. Ma abbiamo rischiato tutti: io a fare il mio primo lungo viaggio in macchina, 600 chilometri, lui ad affidarsi a me, la produzione che metteva tutto nelle mani di una 19enne. A pensarci bene, forse, non potevo neanche guidare quella cilindrata perché l’avevo presa da troppo poco tempo.

Quando arrivò la notizia?

Il cartello arrivò ad altezza Firenze. Sapevamo entrambi che in quei giorni sarebbe potuto accadere, ma parlando e viaggiando, stando molto bene insieme, ce lo dimenticammo. C’era una semplicità meravigliosa in quella macchina, lo ricordo come fosse oggi. Dario sapeva esaltare le qualità della persona che aveva accanto invece di metterti in difficoltà con il suo genio. In fondo io potevo essere, per lui, solo la ragazza di borgata che aveva avuto successo, lui in quelle ore mi fece persino sentire geniale.

E lui come reagì?

Era disorientato. Sembrava una cosa normale per lui. Anzi, sorrido ancora al pensiero che lui tirò fuori un espressione del tipo “ma per chi è la notizia”. Io, in un momento di fortunata e ovvia lucidità gli dissi “Il cartello è per te”. Forse a quel punto iniziò a capire. E io ero così felice per lui, si vede anche nella registrazione. “Guarda che hai vinto!?” gli dico, con un tono come se lui fosse un bimbo… Sembrava piombato un meteorite dentro un’utilitaria che sta andando al lavoro. Mi ricordo che la reazione fu quella che poi in qualche modo ha costruito la sua grandezza: era un bambino che diventava sempre più piccolo, era allo stesso tempo enorme è puro. E poi quel grido che ancora mi fa tremare “Franca Franca Franca!”. E anche là, era un maestro. Era un ti amo non banale al suo amore unico e totale. E non riusciva a sentirla al telefono e ho ancora dentro la frustrazione di non poterlo accontentare. Il telefono non funzionava e io, maledizione, non ero Franca.

E poi cos’è successo?

Rispondevo al telefono come se fossi la segretaria, ci fermammo perché voleva sentire Franca e così festeggiammo all’autogrill con dello spumante a caso comprato là, sembrava una sagra non un Nobel. Ridevamo insieme, io lo prendevo in giro dicendogli “tu hai il Nobel ma non hai la patente!”. E ne abbiamo continuato a ridere per anni. Anche del fatto che la gente, incuriosita, si avvicinava e riconosceva me e non lui. Capito? Lui, il maestro, aveva appena vinto il premio più importante del mondo e le persone riconoscevano me. Era molto buffo.

Quindi in questi 20 anni siete rimasti in contatto?

Appena sentì Franca Rame, pensavo mi dimenticasse. Giustamente. Aveva il Nobel, le interviste, troppe cose da inseguire. E invece che fa? Continuava a ripetere “dov’è Ambra?”, a cercarmi, a parlarmi. Era un uomo fantastico.
Ci siamo sentiti per anni.

Il ricordo più bello fuori da quella macchina?

Un consiglio, forse: mi raccomandava sempre di essere seria ma anche, allo stesso tempo, buffa. Lo cercavo, volevo che mi spiegasse tutto ciò che sapeva sul teatro, che io avrei voluto tanto fare seriamente. Mi ha fatto anche delle lezioni di lettura a voce alta, non riuscivo a superare il mio timore reverenziale, che poi però spariva nelle indimenticabili chiacchierate su ciò che dovevo continuare ad essere, su ciò che aveva fatto, su tutto.

Cosa si porta di Dario Fo con sé?

I disegni che mi ha regalato, in cui lui mi veste sempre come qualcuno che gioca, salta, che doveva trovare gioia in ciò che faceva. Questo suo capire che sono diversa, che cerco altrove rispetto a molti altri quello che desidero mi riempiva il cuore.

Forse è una domanda che non si dovrebbe fare. Ma lei ora come si sente?

Non riesco a essere egoista, a parlare di me. Certo, sono addolorata e mi manca. E credo sia il vuoto che sento e che mi accomuna a tutti quello che mi fa più soffire. Lui ha avuto una vita così piena, di talento, arte, sentimenti, passioni e battaglie, che è quasi impossibile pensare non ci sia più. Lui però forse è dove voleva stare: questi ultimi anni ha vissuto in sottrazione, lui e Franca erano un nome solo e senza la Rame per Dario è stato tutto più difficile e triste. Io ho avuto la fortuna di vederli insieme: solo mio padre e mia madre nella mia vita mi sono apparsi come loro. Due corpi e un’anima.

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