Chi è Ali Sonboly: il giovane killer di Monaco

23/07/2016 di Boris Sollazzo

Ali Sonboly era tedesco, prima che iraniano. Era nato nella Monaco di Baviera che venerdì sera ha terrorizzato con il sangue dei suoi coetanei. L’ha ribadito persino a pochi passi dalla morte. Figlio di una commessa al grande magazzino Karstadt e di un tassista che dall’Iran erano emigrati in Germania negli anni ’90, Alì era gentile e introverso. Così la bella vicina di casa, incredula, ce lo descrive, così come tanti altri di quelli che abitano nelle dignitose costruzioni di un quartiere decoroso, piccolo borghese e benestante, che ha avuto la fortuna di godere di un’edilizia sociale funzionale ed esteticamente gradevole. Tanto da diventare una zona ambita (vicino alla casa del killer c’è un concessionario di auto di lusso). Solo il ragazzo dei giornali si lascia scappare un “era un tipo strano”. Sarà per quello che Alì, come risulta dalle prime indagini, era oggetto di bullismo fin da quando aveva 12 anni (da qui quel “mi picchiano da 7 anni” urlato a chi lo riprendeva mentre era nel parcheggio rialzato del centro commerciale”). Perché era strano. Lo hanno confessato persino i suoi compagni sotto il post trappola che aveva messo su Facebook il giovane killer, riconoscendo subito voce e rimostranze.

Attentato a Monaco: la perfida trappola su Facebook del killer Alì Sonbaly

ALI SONBOLY: MOBBING SUL KILLER DI MONACO?

Sarebbero inoltre al vaglio di chi indaga chat di gruppo su whatsapp dei compagni di scuola in cui ci sarebbero anche foto e video dei maltrattamenti oltre che “confessioni”. Un paio di loro avrebbero già ammesso il “mobbing costante verso Alì” e le minacce di lui “presto vi uccideró tutti”.
Nasce così la sua depressione che porta alle psicosi omicide, all’adorazione per i killer seriali sottovalutata dalla famiglia e dai pochissimi amici: aveva approfondito fin troppo delle stragi della scuola di Winnenden, vicino Stoccarda (15 morti) e sapeva tutto di Andres Breivik, l’uomo che proprio 5 anni fa nell’isola di Utoya, davanti a Oslo, ha ucciso a sangue freddo 69 ragazzi (e altre 8 persone con una bomba in città).

Nella casa della sua famiglia, a Maxvorstadt, i poliziotti che in piena notte l’hanno perquisita, hanno anche trovato un libro “Furia nella mente: perché gli studenti uccidono”, che lui usava e trattava quasi come una Bibbia (pare non se ne separasse mai e fosse pieno, il volume, di appunti, postille e foglietti). E quando non leggeva, sparava. Nella realtà virtuale dei videogiochi, come tutti gli adolescenti. Ma lui invece di nemici immaginari lì già vedeva quei bulli che erano diventati la sua ossessione (si sospetta che tra i tre ragazzi di origine turca vi fosse uno di coloro che da anni lo molestavano).

A nulla è valsa la psicoterapia né la terapia farmacologica, nè l’amore del fratello, tra i pochi con cui si confidava.
Alì David Sonboly – questo era il suo nome completo (ma non era religioso nonostante il doppio nome piuttosto evocativo) – era arrivato a un punto di non ritorno. Forse qualche settimana fa quando molló all’improvviso la scuola, dopo la bocciatura all’esame finale, e il mostro che stava crescendo in lui veniva alimentato dalla paranoia e dalla solitudine, ormai incontrastato. Era tedesco Alì David Sonboly, tanto che il quartiere ora fa quadrato attorno ai genitori, sconvolto perché “erano perfettamente integrati” dice il padre di un ragazzo che gioca a pallone con il fratello del killer e “non avevamo mai dato problemi”.

Alì però aveva deciso. La sua condanna a morte era stata emessa. Ha preso la sua Glock 17, semiautomatica e ben 300 munizioni ed è andato al centro commerciale Olympia, all’OEZ. Lì ha dato sfogo al suo folle progetto di vendetta, seminando morte, terrore, orrore.
Poi il buio, la fuga, forse il suicidio.

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