Alessandro Di Battista, la bufala sulla Banca d’Italia privata a Dimartedì

Alessandro Di Battista ha affermato durante l’intervista a Dimartedì con Giovanni Floris come la Banca d’Italia sia un istituto privato. Una bufala evidente, e assai diffusa da molti anni, nonostante sia una descrizione tanto falsa quanto ampiamente smentita.

Alessandro Di Battista rimarca come Banca d’Italia sia privata perché appartiene alle banche che la controllano, aggiungendo come i cittadini non lo sanno. Ciò è falso, come spiega anche Giovanni Floris subito dopo. La confusione sulla natura giuridica nasce dalla composizione dell’azionariato di Banca d’Italia: la maggior parte delle quote è detenuta da istituti privati. I principali azionisti sono Intesa Sanpaolo, Unicredit, Cassa di Risparmio di Bologna, Generali, Carige, Inps e Inail. Gli ultimi due istituti sono pubblici, mentre i primi quattro sono banche o assicurazioni private. Lo statuto di Banca d’Italia è però esplicito: al primo articolo l’istituto centrale è definito un ente di diritto pubblico. La Corte di Cassazione ha confermato la natura pubblica di Banca d’Italia, in una sentenza del 2006 che riportiamo nei passaggi più significativi.

La Cassazione, con la sentenza 16751 a sezioni riunite del 21 luglio 2006, ha affermato che la Banca d’Italia “non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375“. La banca, pertanto, segue regole di funzionamento differenti da quelle di una normale società per azioni, come si evince anche dallo statuto, che assegna ai soci un numero di voti non proporzionale alle azioni possedute (limitando i voti dei soci maggiori). Gli azionisti di Banca d’Italia sono le banche (oggi private) che discendono dagli istituti di credito (all’epoca pubblici) che nel corso del tempo sono entrati nel suo capitale. La Banca d’Italia è stata una società per azioni fino al 1936. In quell’anno venne convertita in Istituto di diritto pubblico dall’articolo 3 della legge bancaria del 1936 (ovvero il sopra citato regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141, e successive modificazioni e integrazioni). Diciamo che esiste una proprietà formale in capo ad azionisti oggi privati, ma la Banca opera nell’ambito del diritto pubblico. Ciò implica, ad esempio, che lo status giuridico di ente pubblico esclude la possibilità di fallimento della Banca d’Italia e, tramite il suo intervento nei casi di crisi, la possibilità di fallimento delle banche private, garantendo la stabilità dell’intero sistema bancario italiano. Il capitale sociale della Banca ammonta a soli 156.000 euro, versati nel 1936. Secondo l’articolo 3 dello statuto il capitale sociale “è suddiviso in quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, la cui titolarità è disciplinata dalla legge“. Le quote di partecipazione sono costituite da certificati nominativi (art.4). Ai soci sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale e, su approvazione del Consiglio Superiore, un ulteriore 4% del valore nominale del capitale (art.39), cui si aggiunge “una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve” quali risultano dal bilancio dell’anno precedente prelevata dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, sempre su approvazione del Consiglio superiore (art.40). Gli utili netti vengono per il resto distribuiti come segue. Il 20% degli utili netti conseguiti deve essere accantonato al fondo di riserva ordinaria. Col residuo, su proposta del Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20% degli utili netti complessivi. La restante somma è devoluta allo Stato. (art 39)

Alcune evidenze della natura pubblica di Banca d’Italia sono rappresentate dalla sua governance: la carica più importante dell’istituto centrale, il governatore che lo guida, è effettuata dal presidente della Repubblica su proposta del presidente del Consiglio. Il Consiglio superiore, l’organismo che è nominato dall’assemblea dei soci dove sono presenti le banche private, ha limitati compiti, e non ha alcuna ingerenza nelle materie relative all’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite dal Trattato, dallo Statuto del SEBC e della BCE, dalla normativa dell’Unione europea e dalla legge alla Banca d’Italia o al Governatore per il perseguimento delle finalità istituzionali, come fissa il comma 2 dell’articolo 19 dello Statuto. La legge 5 del 2014 ha modificato il capitale della Banca con l’obiettivo, tra gli altri, di ampliare la platea dei partecipanti, stabilendo un limite massimo del 3 per cento alla quota detenibile da ciascuno di essi. Per le quote possedute in eccesso non spetta il diritto di voto e i relativi dividendi – salvo il riconosciuto periodo transitorio che scadrà alla fine del 2016 – sono imputati alle riserve statutarie della Banca. Un’altra evidente contraddizione con la erronea natura privata di Banca d’Italia riguarda la distribuzione degli utili di Banca d’Italia, che spettanoalla riserva ordinaria, fino alla misura massima del 20 per cento, ai partecipanti, che risultino titolari delle quote al termine del quarantesimo giorno precedente alla data dell’assemblea in prima convocazione, fino alla misura massima del 6 per cento del capitale, alla riserva straordinaria e a eventuali fondi speciali, fino alla misura massima del 20 per cento, allo Stato, per l’ammontare residuo. La Banca d’Italia è un ente pubblico dal 1936, quando una normativa del regime fascista riformò il sistema delle banche italiane entrate in crisi. Fu superato il modello delle banche miste, e la maggior parte degli istituti furono nazionalizzati. La privatizzazione di queste banche negli anni novanta, in particolare le 3 Bin -Comit, Credito italiano e Banco di Roma – hanno reso apparentemente privata Banca d’Italia. Ma è solo un errore, visto che l’istituto centrale è un ente pubblico, e come tale opera.

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