L’eredità di Barack Obama in sette punti – le risposte di Aldo Sofia

27/06/2016 di Lorenzo Buccella

Mentre la Corte Suprema stoppa la riforma sull’immigrazione di Obama, mentre Trump crolla nei sondaggi, proviamo a tracciare il panorama dell’eredità di Barack Obama? E’ stata una splendida occasione persa o l’inizio di un mondo nuovo? E’ stato un grande presidente oppure, come il Nobel alle intenzioni, uno che ha perso le ambiziosissime sfide che si era posto? Abbiamo lanciato la sfida agli intellettuali e ai giornalisti italiani, ecco le risposte di Aldo Sofia, una delle firme più autorevoli del giornalismo in Svizzera

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1) UNA PRESIDENZA STORICA SPERANZA O DISILLUSIONE?

In politica anche pochi anni possono diventare un’eternità e gli stati d’animo delle nazioni si specchiano inevitabilmente sul presente più che sul passato. Così, è facile dimenticare in quale contesto interno e internazionale avvenne la prima elezione di Obama. Il sisma finanziario, le macerie della più grave crisi economica dopo i lontani anni della depressione, le “guerre sbagliate” in Medio Oriente dopo la politica presuntuosamente imperiale di George W. Bush e dei suoi neo-con. Così, l’America che – per effetto della mondializzazione e della “finanziarizzazione” dell’economia – aveva esportato i suoi veleni anche in Europa e registrato il più basso tasso di popolarità nel mondo. Nell’euforia della sua elezione, molti dimenticarono che gli Stati Uniti avevano eletto un moderato, un riformista centrista, un convinto assertore della “eccezionalità” quasi messianica (“la nuova Gerusalemme”) dell’America, e non un rivoluzionario. Di questo equivoco si nutre ancora in gran parte, e con semplicistica ingordigia, lo schieramento della disillusione.

2) UN NUOVO INIZIO ECONOMICO SALVATORE O TRAGHETTATORE?

Caronte-Obama, direi. Dunque un traghettatore. Ma il timone che ha affondato e governato nelle acque limacciose della crisi economica non ha puntato sull’altra sponda, quella di un radicale mutamento del modello in crisi, ma piuttosto e semplicemente verso un più tranquillo attracco. Certo, per chi crede che quella attuale sia una crisi sistemica (e lo é), la continuità col passato (tra i suoi collaboratori più stretti ci sono stati anche celebrati rampolli di Wall Street), è stata motivo di delusione. Mentre l’innegabile ripresa economica sotto la sua presidenza, con i suoi evidenti sintomi di fragilità (salari fermi e crescente impoverimento delle classe medie), nonché la difficile riforma sanitaria, non sono state sufficienti ad evitare l’ascesa dei candidati anti-sistema nella corsa per la sua successione: Trump e soprattutto il “socialista” dichiarato Sander. Il loro successo fra la classe lavoratrice (il primo) e fra i giovani (il secondo) ci dice che Obama ha esitato di fronte a un’opportunità: “è la socialità, bellezza”.

3) LA LOTTA AL TERRORISMO ISOLAZIONISTA O ATTIVISTA DIPLOMATICO?

Le modalità della cattura di Osama Bin Laden, con la più che probabile collaborazione dei servizi segreti militari del Pakistan, all’epoca tenuto sulla corda per un aiuto di 8 miliardi di dollari) probabilmente riassume la modalità scelta dal capo della Casa Bianca nel contrasto al terrorismo che si richiama arbitrariamente all’Islam. Quello di azioni militari mirate e a lungo pianificate, e l’uso (anche l’abuso, visti i cosiddetti “danni bilaterali” sulle popolazioni, con numerose vittime civili) dei droni contro i leader del terrorismo di ieri e di oggi sul loro territorio. Contro i Talebani dell’Afghanistan (colpiti fin dentro il Pakistan) sia in Irak e Siria contro gli esponenti di Daesh, il neo-Califfato. Gli ultimi sviluppi della guerra all’Isis non gli danno affatto torto. Rimane la vergogna di Guantanamo, che aveva promesso di chiudere. Potrebbe ancora farlo, come ultimo atto della sua presidenza, a cui va riconosciuto di aver tenuto a bada certi “automatici istinti” dei suoi generali.    

4) IL DIALOGO COL NEMICO: MIOPIA O LUNGIMIRANZA?

“Il comandante riluttante”, è stato spesso detto di Obama. E’ vero, ma sarebbe un errore rileggere quell’accusa solo in senso critico e negativo. Non solo Obama ha deciso di sganciarsi dal pantano del Medio Oriente (dando priorità al cosiddetto “Pivot Asia”, priorità all’Asia) ma in un famoso discorso ha teorizzato senza ambiguità la sua convinzione: gli errori interventisti del passato recente hanno dimostrato che gli Stati Uniti non hanno né la forza né l’interesse di essere il gendarme del mondo. La sua dottrina dello “stay behind” (agire e far agire senza essere necessariamente in prima fila) raffigura bene il suo pensiero. Così ha accettato quello che per molti è stato un vantaggio regalato a Putin (la famosa questione delle armi nucleari siriane più che altro risolta dall’intervento del Cremlino sull’alleato arabo), e così ha guidato la trattativa con l’Iran (sostanzialmente convinto che la regione deve trovare un nuovo equilibrio fra i sunniti guidati dall’ambiguo alleato saudita) e la Repubblica islamica desiderosa di rientrare nella comunità internazionale. Problema: crisi come quelle del Medio Oriente rischiano di “risucchiare” la superpotenza, di dettarle l’agenda, dopo anni di iper-presenza americana. Nessuno lo ricorda, ma fu così anche per George W. Bush: la sua era una presidenza più indirizzata ad una sorta di neo-isolazionismo. E l’11 settembre cambiò tutto, radicalmente. Non é dunque detto che questa legacy possa essere un’eredità sicura per l’avvenire.

5) I DIRITTI CIVILI E SOCIALI CORAGGIOSO O VELLEITARIO?

E’ la parte più contraddittoria della “maschera obamiana”. Le apertura sociali di Obama sono innegabili, così come i loro limiti. Innegabile il merito di aver democratizzato l’assistenza sanitaria (ma durerà?), ma altrettanto innegabile é il ritorno della questione razziale, di cui proprio la sua elezione sei anni fa sembrava aver decretato il definitivo superamento. Riecco invece riproporsi con sguaiatezza la parte d’America che non ha mai accettato l’arrivo alla guida del paese di un “nigger”; così come non accetta la principale rivoluzione demografica in corso, quella di una componente Wasp (bianca e anglosassone e protestante) che negli Stati Uniti sta diventando minoranza. E’ sul piano dei diritti civili che Obama, nonostante il Freedom Act, registra il bilancio più negativo: lo spionaggio massiccio e capillare come arma interna e internazionale é qualcosa che tradisce i suoi discorsi “valoriali”, ma che rispecchia perfettamente l’idea di un’America che, nel credo di Obama, deve comunque mantenere la leadership mondiale.

6) IL CAMBIAMENTO CLIMATICO ECOLOGISTA O CALCOLATORE?

L’Obama “ecologista” rimane l’Obama pragmatico, che non si priva dell’ambientalismo per ridisegnare linguaggi e modi del primato statunitense. Da una parte l’adesione agli accordi di Parigi (chi vivrà vedrà); ma dall’altra il varo, durante la sua presidenza, del freaking (il gas di scisto), la cui estrazione produce danni al sottosuolo ed è tutto tranne che ecologico. Ma è proprio questo approccio che darà (forse) l’autonomia energetica agli Stati Uniti: e c’é anche questa prospettiva di indipendenza energetica a fornire a Obama la convinzione dello sganciamento dal Medio Oriente e dai tradizionali alleati, i principi sunniti del petrolio.

7) IL PARAGONE COL PASSATO E COL FUTURO AGGRAVANTE O CONSOLAZIONE?

E qui si torna alla casella iniziale. E’ corretto valutare l’eredità di Obama senza tener conto dell’eredità ricevuta al momento dell’insediamento? Se la politica è utopia, il bilancio è quello che è. Se invece non è l’arte dell’impossibile, la promozione di questa presidenza sembra sicura. Sempre che si abbia il buon senso di leggere gli ultimi otto anni di storia statunitense togliendosi gli occhiali del pregiudizio ideologico.

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