Io, giurato del David di Donatello, mi chiedo a chi faccia paura 87 ore

Ieri sono scaduti i termini per il voto da parte dei giurati del David di Donatello 2016. E chi scrive, è uno dei votanti. Uno dei tanti (gli aventi diritto sono un bel po’, qui potete sapere chi sono), che prende molto sul serio il suo compito. Perché un premio come questo può cambiare la storia di attori, registi, direttori della fotografia e anche dei prossimi film che acquisiranno punteggio, sul mercato come nei conteggi che possono aiutare un’opera ad avere un finanziamento pubblico. Perché non di rado qui si può far giustizia della distrazione del pubblico, delle mancanze di un distributore, di tutto ciò che, magari, non ha permesso di brillare a dovere a un lavoro meritevole.

LEGGI ANCHE: DAVID DI DONATELLO 2016, TUTTE LE CANDIDATURE

E allora, scrivo solo oggi di qualcosa che mi macera da giorni. Perché non era giusto utilizzare il mio ruolo di giornalista per influenzare la votazione, anche se in maniera infinitesimale.

Ieri ho votato e, anche se il voto è segreto, vi rivelerò che alla categoria documentario ho lasciato scheda bianca.

Nulla contro il bravo Minervini e il suo Louisiana o I bambini sanno, l’opera seconda di Walter Veltroni, che ho apprezzato, né contro Harry’s Bar, grazioso racconto di un luogo simbolo di Venezia, o l’intelligente Revelstoke di Moruzzi o, infine, S is for Stanley di Alex Infascelli, che anzi vi consigliamo di recuperare, se siete dei Kubrickiani.
Ma non riesco a farmi una ragione dell’esclusione, da questa cinquina, di 87 ore di Costanza Quatriglio. Il miglior documentario della stagione e il film che negli ultimi anni più ha rivoluzionato il linguaggio del nostro cinema, come questa cineasta straordinaria, fin da L’Isola, fa fin dall’inizio della sua carriera. E’ semplicemente tra le migliori registe italiane ed europee, anche se non l’avete vista vicina a Renzi a celebrare la prossima legge cinema o non finisce in prima pagina.
87 ore è stato apprezzato dal pubblico che l’ha cercato con ostinazione, è un lavoro celebrato senza se e senza ma dalla critica e molti colleghi dell’autrice (bastava essere a uno dei tanti dibattiti dopo una delle proiezioni per capire la forza e la profondità con cui ne erano stati colpiti).

Ma in quella lista, dei cinque migliori candidati al David di Donatello 2016, non c’è.

Siamo in Italia e la prima cosa a cui pensi è il complotto – anzi, come ormai si dice in rete, il #gombloddo -, il lato oscuro del Potere. E, sia chiaro, non siamo così ingenui da escluderlo: se si spia l’apparato produttivo di chi è finito nella ristrettissima rosa dei premiabili, intuiamo che di sicuro pacchi di voti, per empatia – chiamiamola così – verso la grande produzione che dà lavoro a molti e a molti potrebbe darne, deve aver inciso. Niente di male: non è che gli Oscar funzionino in maniera diversa, per dire.

C’è poi il solito bug nel regolamento. Se mi chiedi due step di votazione, tu Accademia del Cinema italiano, uno per creare le cinquine delle categorie e l’altro per individuare il vincitore di ognuna di esse, nel primo passaggio non puoi offrirmi una sola scelta. E se proprio, come logica vorrebbe, non vuoi farmi compilare la mia cinquina ideale, magari in ordine di gradimento, devi lasciarmi almeno due o tre opzioni, non un singolo voto. Siamo sicuri che molti che per la suddetta “empatia” hanno votato in una certa maniera, avrebbero messo in seconda battuta 87 ore, di gran lungo, nella categoria e non solo, il capolavoro della stagione.

Infine, non ha aiutato il cambio di dead line di quest’anno, che qualche confusione l’avrà anche creata.

Ma, alla fine, la spiegazione, anzi le spiegazioni, anche messe tutte insieme, non bastano a giustificare una dimenticanza così assurda (per vostra fortuna potete giudicare voi stessi quanto lo sia: il film è uscito in dvd ed è in vendita da pochi giorni). La verità è che 87 ore di Costanza Quatriglio fa paura. Per la destrutturazione del linguaggio che fa diventare il cinema del reale una riflessione potentissima sulle limitazioni del cinema secondo gli schemi classici dei pigri artisti italiani e degli ancora più indolenti e opportunisti produttori nostrani. Perché ci pone di fronte alla dittatura dell’immagine e alla follia di un mondo che sorveglia tutto ma non guarda nessuno, perché tratta una morte di stato – Mastrogiovanni muore per un Tso poco chiaro, lasciato morire in una struttura sanitaria in provincia di Salerno di fame e di sete, inquadrato da un nugolo di telecamere di sorveglianza – in cui tutti diventiamo complici, perché incapaci di ribellarci al controllo che non sa neanche essere protezione. Perché Costanza Quatriglio si mostra regista proprio rinunciando a costruire l’immagine, ma demolendola e sottostando alla schiavitù di quelle spie fredde che assistono alla morte, ma non possono assistere il malato. Lei si ribella con 87 ore, raccontando, cosa che medici e infermieri, lì non fecero, nascondendosi dietro quegli occhi meccanici disumani.
Si ribella con il montaggio, la narrazione, la sensibilità, l’intelligenza, la visione di una spiaggia e un’aula di tribunale trovata in pochi fotogrammi. Si ribella andando a fondo di una storia che lacera dentro, investigando la banalità dell’orrore di un paese agonizzante, come Mastrogiovanni.

Un film così, che si sottrae alle regole rassicuranti che tutti gli altri seguono, non può essere premiato. Ed è per questo che ha fatto paura anche ai festival più importanti – a proposito, bravissimi quelli di Arcipelago che con coraggio lo hanno voluto -, 87 ore è troppo scomodo. Per i colleghi della regista, che sarebbero costretti a cambiare visuale, a mettersi in discussione. Per la maggioranza silenziosa e la sua morale di plastica, che nel silenzio vede consumare delitti come quello che hanno ucciso Mastrogiovanni. Ogni giorno. Per il sistema cinema, che così potrà dire a chi vorrà seguire l’esempio della Quatriglio, “non funziona”.

Per fortuna qualcuno si è ribellato: 87 ore è andato su Rai 3, mesi fa. Le sue proiezioni hanno riempito sale e alimentato discussioni meravigliose e dolorose. E alla fine una nomination o una statuetta negata non offuscano la forza di un capolavoro che fa paura. A chi non ha il coraggio di farlo, di premiarlo, di selezionarlo.

Ecco perché tra i documentari, non ho votato nessuno dei cinque nominati, a cui auguro le migliori fortune. Perché a essere ipocrita, a girare la testa dall’altra parte, a non fare i conti ogni giorno con 87 ore, come faccio dal giorno in cui l’ho visto, io non ci rinuncio.

Share this article