Cosa si nasconde dietro i 101 che hanno ammazzato Prodi

Ricomporre tassello per tassello, trovando i nomi dei 101 parlamentari del Partito democratico che tradirono Romano Prodi nella corsa al Quirinale, forse non sarà mai possibile. Nascosti nel silenzio del voto segreto, hanno “impallinato” il padre fondatore dell’ Ulivo, senza avere poi il coraggio di rivelarsi. Il “coming out” politico non è mai arrivato, nonostante le richieste di chi, tra i prodiani più fedeli – come Sandra Zampa e Sandro Gozi – pretendeva chiarezza e trasparenza . Ma non solo. C’è anche chi ha cercato di far passare il simbolo del suicidio politico del Pd come un semplice “errore di percorso”, qualcosa da dimenticare in fretta, per ricomporre una finta “concordia” in vista del prossimo Congresso. Tutto nel nome del compromesso, da realizzare in perfetto stile Cencelli: sia nella nuova segreteria (a tempo) di Guglielmo Epifani, che nella commissione Congresso – quella che dovrà decidere sulle regole dell’assise, ndr – le correnti si sono divise ruoli e cariche. La stessa “pax lettiana” rischia di essere scossa dal ritorno della “guerra tra bande” democratiche, in un Pd dominato da personalismi e correnti, che ora sembrano cercare di coalizzarsi in ottica anti-Matteo Renzi. Ma mentre i democratici si preparano a un Congresso ancora senza data (Epifani ha ribadito soltanto che si farà entro l’anno, ndr) e senza aver scoperto tutti i suoi candidati, il “fantasma del 19 aprile“, con l’affossamento di Prodi, è stato sotterrato sotto il tappeto. Senza risposte e senza aver prima fatto chiarezza. Eppure il progetto politico sembrava chiaro, anche senza bisogno di conoscere l’identikit dei traditori. “Prodi era un ostacolo sulla via delle larghe intese e per questo andava rimosso. E’ stato un rito di passaggio, necessario, per la formazione del governo. L’unica strada possibile”, svela un dirigente democratico che condivide la necessità del patto con Silvio Berlusconi e Scelta Civica. In pratica, senza il Professore bolognese, l’inciucio era servito. Con lui, la prospettiva era un probabile ritorno alle urne, considerata anche l’ostinazione solitaria del MoVimento 5 Stelle e gli errori di Pierluigi Bersani. Non restava che “far saltare la candidatura”. Ma chi sono stati i responsabili? Nel gioco delle accuse, c’è chi diede la colpa all’area mariniana, chi agli ex popolari e ai fioroniani, chi allo stesso D’Alema. A Matteo Renzi, o ai giovani eletti. Ma per capire meglio cosa possa essere successo serve un passo indietro.

Elezioni - Conferenza stampa di Pierluigi Bersani

DAL POST ELEZIONI A FRANCO MARINI: IL SUICIDIO DEL PD – Sono i mesi del post elezioni, con il Pd che continuava a cambiare strategia politica, tentando tutte le carte per la formazione di un esecutivo. Fino a frantumarsi in un congresso anticipato nell’elezione per il presidente della Repubblica, tra i passaggi drammatici del teatro Capranica e i franchi tiratori nell’Aula. Non era stato un periodo semplice per la segreteria Bersani: dopo la rincorsa del centro durante la campagna elettorale – con l’Agenda Monti termine di paragone per il programma di una divisa “Italia Bene Comune” – il centrosinistra era riuscito nell’impresa di perdere elezioni che in molti consideravano già vinte. Una riedizione, anche peggiore, delle politiche del 2006, quando lo stesso Romano Prodi e l’Unione di centro-sinistra riuscirono a vincere per soli 25mila voti, dopo una campagna per i più incomprensibile, condotta a colpi di cuneo fiscale. Sette anni dopo il Pd non era riuscito a fare di meglio. Anzi. Tra Beppe Grillo che cannoneggiava sulla Casta e le sparate del Cavaliere sull’Imu, il Pd doveva anche difendersi dalle accuse sullo scandalo Mps. A urne chiuse, questa volta, considerati i numeri insufficienti a Palazzo Madama, nemmeno i senatori a vita potevano correre in aiuto. Bersani provò a corteggiare il MoVimento 5 Stelle, con i famosi “otto punti” del “governo del cambiamento”, dopo aver ricevuto una sorta di “incarico esplorativo” da Giorgio Napolitano. Quasi un “incarico condizionato”, abortito anche per i continui rifiuti dei grillini: “Abbiamo sbagliato totalmente la campagna elettorale e poi ci siamo limitati a rincorrere il M5S. In quei mesi i capibastone cercavano di dettare le regole, anche se non c’era sintonia tra correnti sulla strategia da adottare, mentre il giovane gruppo dirigente uscito dalle parlamentarie veniva quasi messo da parte”, ci racconta una neoeletta. Poi, un nuovo repentino cambio di linea politica: dal governo del cambiamento alla Convenzione per le riforme offerta al Popolo della Libertà. Troppo poco. Silvio Berlusconi voleva contare di più: meglio giocare una doppia partita, tra governo e Colle. Sul secondo, si consuma la tragedia: il Pd offre una rosa di nomi all’eterno nemico, cercando convergenza sul candidato per il Quirinale. E’ la strada che porta direttamente alle larghe intese e che tenta di portare Franco Marini al Colle.

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NESSUNA VOGLIA DI DISCONTINUITA’– Eppure, prima della partita del Quirinale la tensione interna tra correnti, nel Pd, si era già manifestata. “Pochi lo ricordano, ma c’erano già segnali evidenti di come il partito fosse spaccato al proprio interno”; rivela una parlamentare bersaniana delusa. “Fu la votazione per Roberto Speranza come capogruppo alla Camera a far svelare i malumori. Allora mancarono 90 voti con modalità segreta”, ricorda. Per la deputata “c’era una parte del Pd che non voleva il cambiamento”, dato che Speranza era un segnale di discontinuità, rispetto al nome di Dario Franceschini del quale si parlava in precedenza. Ma se al Senato Zanda aveva trovato il consenso necessario, su Speranza il Pd si divide. Mancano alla fine quasi un centinaio di voti, anche se riesce ad essere eletto. “Con le unghie e con i denti, molti vecchi big tentavano di sopravvivere politicamente e controllare il partito. Il loro unico interesse resta ancora oggi quello dell’autoconservazione, non la ricerca del bene comune per il nostro Paese”, attacca.

 LA BOCCIATURA DI MARINI – Il primo ad essere bocciato da un Pd in balia alle correnti è così l’ex sindacalista Franco Marini, un nome scelto dallo stesso Berlusconi sulla base della rosa proposta dai democratici. “Per mesi ci hanno spiegato che dovevamo fare il governo del cambiamento, poi, all’improvviso si sono presentati con il nome di Franco Marini: qualcosa di inaccettabile per noi, che avevamo compreso come fosse stato l’apripista per le larghe intese”, spiega la giovane parlamentare, una di quelle che aveva puntato su Prodi ben prima che il suo nome fosse proposto al Capranica. Non pochi ricordano come – nonostante l’assemblea durante la quale fu proposto il nome dell’ex popolare fosse stata infuocata – Bersani decise di non ascoltare le proteste: “In quei giorni il segretario sembrava frastornato”, ricorda Ivan Scalfarotto. Al teatro Capranica, arrivato insieme al gruppo dei renziani del quale fa parte, Scalfarotto – una delle voci più dissidenti nel Pd – credeva di prepararsi a una nuova battaglia quasi solitaria: “Invece ci accorgemmo come la protesta montasse. Il primo discorso a favore della candidatura di Marini arrivò soltanto dopo cinque o sei interventi. Sel si era alzata e se n’era andata. Di fatto si era rotta l’alleanza con la quale ci eravamo presentati agli elettori”, continua Scalfarotto. Che rivela tutta la tensione di quell’incontro: ad un certo punto, ricorda, interviene la prodiana Zampa: “Questo non è il segretario che io ho votato, non lo riconosco”, disse. Invano. Anche Matteo Orfini, che faceva parte dei “Giovani Turchi”, invita il segretario a prendere tempo: “Qui c’è qualcosa che non va, parliamone”. Ma la strada di Marini era ormai segnata. E Bersani non intendeva retrocedere: “Quando ha scelto l’ex sindacalista, Bersani ha scontentato altri. D’Alema? Non so, è stato uno di quelli di cui si discuteva, ma io non farò questo nome nemmeno sotto tortura, perché non so. Di sicuro c’erano altri papabili”, spiega un giovane eletto renziano. In aula, Franco Marini, che sulla carta poteva contare su un ampio margine di voti per essere eletto (745 voti, ovvero 151 più del necessario, dato che oltre a Pd, Pdl e Lista civica era arrivato in mattinata il sostegno della Lega), viene affossato dalle divisioni interne al Pd. Se i renziani, che avevano dichiarato al Capranica che non avrebbero votato per l’ex popolare, dirottano i propri voti sull’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, il resto del Pd si spacca tra schede bianche e voti dispersi per altri candidati. Compresi quelli per Stefano Rodotà, il giurista, candidato del MoVimento 5 Stelle e appoggiato anche da Sel (con l’eccezione del IV scrutinio, quello di Prodi, ndr, quando i vendoliani scelsero il Professore bolognese) che raccoglieva il consenso di gran parte della base, che dall’esterno e sui social network chiedeva che il Pd convergesse su di lui. Il verdetto dell’Aula è implacabile per Marini: alle quattordici in punto, la presidente della Camera Laura Boldrini annuncia: “Presenti e votanti 999, Marini 521, Rodotà 240, Chiamparino 41, Prodi 14, Bonino 13, D’Alema 12, Napolitano 10, Finocchiaro 7, Franco Marino 3, Cancellieri 2, Monti 2, voti dispersi 18, bianche 104, nulle 15”. Il dramma e le divisioni interne al Pd appaiono evidenti così nel voto, dopo l’accesa riunione del Capranica. “Il voto su Marini fu raffazzonato, superficiale, preoccupante anche se fosse stato eletto un presidente di una bocciofila. Figurarsi per un capo dello Stato. Se ci fermavamo in tempo, con la base in rivolta, ci saremmo risparmiati tanti guai. Anche se le contraddizioni del Pd sarebbero comunque “sbocciate”, sostiene la parlamentare ex bersaniana delusa. E’ d’accordo anche un dirigente di peso del Pd che, seppure proveniente da ambienti più di sinistra, appoggiò la mozione di Dario Franceschini nelle primarie che opposero l’attuale ministro a Bersani: “Chi ha votato Rodotà lo ha ammesso: ci siamo fatti rubare questo nome dai grillini. Ma sarebbe stato impallinato anche lui dai fioroniani, lontani anni luce dall’esperienza politica del giurista.

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GOVERNO LETTA? “SE NE PARLAVA GIA’ DAL TERZO GIORNO” – Il Pd, fastornato, decide di votare scheda bianca nella II e III votazione, preparandosi a scegliere un nuovo nome che potesse ricompattare il partito. Si cambia di nuovo strategia, si abbandonano le larghe intese e si punta a un nome completamente diverso, quello di Romano Prodi. Ma tutto avviene in maniera “troppo superficiale”, come concordano diversi parlamentari democratici. Se l’immagine ricordata dai media è quella del Capranica che applaude compatto, dopo la proposta di Bersani, il nome dell’ex presidente della Commissione Europea, con tanto di voto seguente all’unanimità, in realtà c’è chi non è d’accordo con questa ricostruzione. Un passaggio chiave, per capire quello che poi è avvenuto in Aula, con il tradimento dei 101. “Quel giorno è stato gestito in maniera pessima dalla mattina. Non c’era unanimità sul nome di Prodi, nonostante tutti parlino di acclamazione. Ci siamo trovati in mezzo a una guerra per bande, ci siamo accorti che qualcosa non andava. C’erano gruppi di interessi e di potere organizzati che si sono vendicati per questioni che si portavano indietro da anni”, ha spiegato un’altra giovane eletta. “Che qualcosa non fosse chiaro lo si era capito: non tutti aveva applaudito, altri si erano semplicemente nascosti”, concorda la bersaniana delusa. Che aggiunge come ci fosse un disegno evidente: “L’idea che mi sono fatta è che si siano consumati dei vecchi rancori tra esponenti storici del partito, ma quanto successo a Prodi è diretta conseguenza di una strategia politica”. Ricorda come, fin dal post elezioni, ci fossero due blocchi distinti: “C’era chi, seppur facendo diversi errori, tentava la strada del “governo del cambiamento”, senza una maggioranza ben definita. Ma c’era anche chi voleva a tutti i costi le larghe intese”, aggiunge. Secondo la deputata “quei 101 erano parte integrante di quel progetto di affossamento di qualsiasi tipo di governo che non fosse quello del patto con il Pdl”. Si spinge più avanti: “Io ho sentito parlare di Governo Letta già dal 3° giorno di parlamento. Non c’è bisogno di fare alcuna ammissione: chi ha voluto e sposato le larghe intese sta dietro l’affossamento del nostro padre fondatore”, attacca.

2008: alla seconda crisi di governo Prodi si dimette e si discosta dalla politica italiana
Romano Prodi, impallinato dai 101 franchi tiratori del Pd

PRODI BOCCIATO – In Aula anche Romano Prodi finisce impallinato dai franchi tiratori del Pd, il partito che lo aveva acclamato come candidato. Al fondatore dell’Ulivo sono mancati ben 101 voti, nonostante la standing ovation del Capranica. Nulla di simile rispetto alle polemiche e ai voti in dissenso su Franco Marini, “foriero di larghe intese”. Ma anche in questo caso il Pd finisce preda di un Congresso anticipato, realizzato sul nome del Professore. Il risultato finale consegna a Prodi soltanto 395 voti, Rodotà sale fino a 213 (51 in più rispetto ai 162 parlamentari a 5 stelle), mentre anche Anna Maria Cancellieri, candidata dei montiani, raccoglie una decina di voti in più, attestandosi a quota 78. Poi ci sono altri voti sparsi, come le 15 schede bianche, le 15 per Massimo D’Alema, i due per Massimo e Vittorio Prodi, i 3 a Franco Marini. Per il Pd è il voto su Prodi è il simbolo del suicidio collettivo. Il Professore, amareggiato, toglie la sua disponibilità. “Chi mi ha portato qui si assuma la sua responsabilità”, spiega dal Mali, dove si trovava per conto dell’Onu. Aveva già capito da alcune telefonate che non sarebbe mai passato, come poi rivelerà la sua storica portavoce, Sandra Zampa. Annuncia le dimissioni anche Pierluigi Bersani: “Uno su quattro ha tradito: è troppo”, spiegherà. Il suo passo indietro diventa effettivo subito dopo la ri-elezione di Giorgio Napolitano, che metterà d’accordo Pd, Pdl, Scelta Civica e Lega Nord, ma non M5S e Sel che voteranno Rodotà. Il primo presidente della Repubblica rieletto della storia italiana.

CHI HA AFFOSSATO ROMANO PRODI? – Dopo il tradimento di Romano Prodi nel Pd parte la resa dei conti. Tutti attaccano tutti, in modo che i veri responsabili non vengano allo scoperto. Succede di tutto: il candidato numero uno tra i sospettati diventa il “Lìder Maximo”, Massimo D’Alema. Insieme agli ex popolari di Fioroni e ai mariniani delusi, il dirigente che non si era candidato alle ultime politiche dopo le polemiche renziane e la rottamazione, diventa il principale obiettivo delle accuse. Lui si difende e minaccia di denunciare chi lo ha accusato: “Prodi sa chi ha tradito, il problema è chi lo ha candidato in questo modo così assurdo, senza alcuna preparazione”, attacca. Anche lo stesso Beppe Fioroni e i suoi mostrano le foto del voto. Per Zampa è soltanto la prova che “si sono pure preparati l’alibi”, sottolineando come la foto fosse la stessa, diffusa attraverso i telefonini. Non mancano le accuse verso fioroniani e dalemiani: “Dopo il flop di Marini, erano in ballottaggio Prodi e D’Alema. D’Alema ha chiesto le primarie, ma non gli sono state concesse. I gruppi che fanno capo a lui si sono vendicati. A questi si sono aggiunti i sostenitori di Fioroni e Marini”. C’è invece chi punta il dito contro Renzi e i suoi parlamentari: il sindaco di Firenze spiega di non aver bisogno di fare “doppigiochi”, anche perché nel caso del mancato voto a Marini i suoi lo avevano dichiarato con trasparenza. Non pochi spiegano come parte dei tiratori potrebbe aver votato Rodotà per mischiare le carte. E dare la colpa a Sel: peccato che Nichi Vendola, con un trucco degno della Dc, fece “firmare” il voto “R. Prodi” ai propri eletti, rendendolo riconoscibile. Segno che tutti avevano già capito che i rischi nel voto per Prodi fossero evidenti, dopo quello che era avvenuto il giorno prima.

RUMORS E INDISCREZIONI: PROGETTO LETTA-NAPOLITANO – Ma cosa c’era realmente dietro l’affossamento di Romano Prodi? Un tentativo di trafiggere il segretario Pierluigi Bersani? Forse, ma non solo. L’obiettivo, secondo alcuni parlamentari, erano proprio le larghe intese. Per l’ex bersaniana delusa il gioco era semplice: “Dopo aver bocciato Prodi, non era più possibile presentare altri nomi. Tutti sarebbero finiti vittime del fuoco incrociato. Da lì si arriva al disegno della rielezione di Giorgio Napolitano, che è il garante di questo governo. Fin dai primi giorni, l’obiettivo era il progetto Letta-Napolitano. Non è un caso che il capo dello Stato non avesse mai dato un incarico pieno a Bersani, non consentendogli di presentarsi alla prova della fiducia. Il capo dello Stato non voleva il governo Bersani”, accusa, puntando contro lettiani, fioroniani, dalemiani e quelli “che si trovano oggi nei ruoli di vertice tra governo e commissioni”. Altri spiegano: “I nomi? Li sappiamo, o almeno, ognuno di noi ha capito chi ha tradito. Ma non li rivelerò nemmeno sotto tortura”, scherza il dirigente che appoggiò Franceschini. Questo perché “nessuno in realtà ha mai dichiarato di aver tradito”. Quindi si tratta di supposizioni, anche se “ben studiate”, precisa. E le correnti? “A tradire furono una parte di ex popolari delusi per la mancata elezione di Marini, poi una parte di lettiani e fioroniani. Ma c’era anche chi guardava alla politica più per tornaconto personale che per spirito di servizio al Paese”. Questo perché, spiega, con l’elezione di Prodi si sarebbe tornati probabilmente alle urne, così non molti temevano di perdere la poltrona. Difende dalle accuse i renziani: “Il sindaco di Firenze è molto franco, non è abituato a questi giochi di palazzo. Avrebbe fatto un grosso errore a fare le stesse manovrine che tanto contesta. I voti di Chiamparino sono passati a Prodi senza alcun dubbio”, insiste. E Massimo D’Alema? Secondo il dirigente del Pd, non avrebbe contato molto nel IV scrutinio (quello del voto che ha silurato Prodi), al contrario di altri che accusano il Lider Maximo e i parlamentari a lui vicini. “Di sicuro D’Alema ha inciso di più nella non elezione di Marini: in quel caso a mio avviso i suoi e i Giovani Turchi non hanno seguito l’indicazione di partito. Al contrario, i voti che uscivano per D’Alema al quarto scrutinio non erano reali, qualcuno voleva imbrogliare. Certo, può darsi che qualcuno dei dalemiani pensasse che fosse ancora possibile l’elezione al Colle del suo leader, ma non c’erano effettivamente le condizioni”, spiega. Tutto mentre critica l’ex segretario Bersani per la gestione della partita per il Colle: “Aldo Moro quando decise di portare avanti il compromesso storico con il Pci fece il passaggio di tutti i parlamentari. Chiacchierò fino alla fine con tutti per spiegare le motivazioni di una eventuale scelta. Bersani non ha fatto questi passaggi. Con l’applauso non si può capire nulla, dato che ci sono comunque persone che hanno applaudito e poi hanno votato contro”, conclude.

elezioni 2013

MARINI VS PRODI: LA DIATRIBA SULL’ANALISI DEL VOTO – Qualcuno tentò anche di paragonare la votazione flop di Marini a quella di Prodi, ma per gran parte dei parlamentari si trattò di situazioni diverse: “C’è chi dice che la disfatta del Pd derivi dal voto su Marini. Ma non è così, dato che in quel caso il dissenso fu più grande e soprattutto palese. Chi non l’ha votato come me lo aveva dichiarato, perché era foriero di larghe intese. Tanto che subito dopo c’erano già le dichiarazioni di Brunetta, Gelmini e Berlusconi sulle trattative per il governo”, spiega la bersaniana delusa. “Noi ci siamo ribellati a questa logica, in assoluta buona fede”. Spiega come con la candidatura di Prodi il progetto fosse diverso: “Magari si arrivava a nuove elezioni, ma non c’era di certo la prospettiva delle larghe intese. Un esecutivo che oggi sosteniamo con lealtà, ma che è un governo a tempo perché non potrebbe essere altrimenti date le forze così eterogenee che lo compongono”, spiega. Eppure la ferita di quanto è avvenuto è ancora aperta: ”Stiamo lavorando con le nuove leve e i meno giovani che la pensano come noi per il prossimo congresso: il partito non può più essere organizzato per bande armate, ma per idee, che oggi mancano. E bisogna parlare di identità e futuro. E’ un congresso fondativo, vero, di rinascita del Pd”, rivela. Anche Sandro Gozi parla della diversità tra i casi Marini e Prodi: “Molti nel Pd cercano di far passare quello che è uno spartiacque, in un semplice incidente di percorso. Non è così: il 19 aprile è finita la prima esperienza del Pd. Ora siamo in una fase di transizione, dopo l’uccisione definitiva del primo tentativo del Pd, con la visione del Lingotto del 2007 mai realizzata, abortita e nata male”. Quando è stato silurato Prodi è stato un passaggio rilevante: questo perché è emersa la mancanza di fiducia all’interno del Pd. “Se non si affronta politicamente quell’aspetto, non si potrà mai ricostruire un vero partito basato su lealtà e trasparenza. Bisogna affrontare quel nodo politicamente”. Per questo continua a chiedere chi siano i 101: “Non perché vogliamo avere vendette, ma perché bisogna capire i motivi del voto contrario e quali obiettivi politici volevano avere”, incalza, invocando l’inizio di una nuova fase per il Pd.

TANDEM D’ALEMA-MARINI – C’è chi, come Roberto Reggi, ex responsabile organizzativo del sindaco di Firenze Matteo Renzi, rievoca scenari del passato per spiegare chi potrebbero essere i franchi tiratori di Prodi: “Gli stessi che fecero cadere Prodi nel ’98 hanno fatto il bis, ovvero D’Alema e Marini”. Spiega come i “parlamentari renziani non avessero alcun interesse a far cadere il Professore e come, a questo punto, “poco importasse” – secondo Reggi – capire chi fosse stato: “Bisognerebbe affrontare il motivo della sconfitta. Il siluramento di Prodi è soltanto l’atto finale di un percorso suicida, partito dopo le primarie vinte da Bersani”. Su Prodi “beffato” in quanto argine alle larghe intese non si sbilancia: “Io sono più interessato a capire perché abbiamo perso le elezioni. Per me è perché abbiamo limitato la partecipazione alla politica e siamo stati incapaci di rispondere ai problemi della gente”. Non è l’unico a interrogarsi sulle responsabilità del duo Marini-D’Alema: “Loro responsabili? Io non so se i personaggi sono gli stessi rispetto al ’98, ma quel che è sicuro è che la logica è la stessa. Quella del sotterfugio, della logica di palazzo, che noi dobbiamo cambiare”. Per Gozi, oggi, “se Prodi non fosse caduto in passato, tutto sarebbe stato diverso”. Ricorda anche come nel 2008 ci fosse stato l’aspetto della corruzione: “Il patteggiamento di De Gregorio dovrebbe essere il primo punto di discussione nel Pd. Al contrario, il silenzio con cui è passata la vicenda mi ha lasciato senza parole. Sarebbe fondamentale dibattere sul fatto che con il patteggiamento ha praticamente ammesso di essere stato comprato per far cadere il governo”, attacca Gozi.

Pd correnti 7

LA SORPRESA DEI TRADITORI – Non mancarono nella giornata del 19 aprile gli strani atteggiamenti che misero in guardia Prodi e i suoi dalle congiure interne: “Io credevo che sarebbero mancati tra i 50 e 60 voti, ma mai mi sarei aspettato quelle cifre”, spiega Gozi. Anche perché spiega come in realtà i traditori dovrebbero essere qualcuno di più dei 101: “Almeno 110, considerato come ho quasi la certezza assoluta che 7-8 parlamentari di Scelta Civica abbiano votato per Prodi”. E verosimilmente anche “qualcuno del M5S”. Eppure, l’acclamazione del Capranica (che Gozi definisce spontanea), il voto seguente e il verdetto contrario dell’Aula lo lasciano ancora con poche parole: “Verranno mai allo scoperto? Lo auspico perché mostrerebbe almeno coraggio. C’è poca dignità nell’atteggiamento dei 101. Credo che l’obiettivo vero fosse rimuovere Bersani, l’ultimo ostacolo al governo di larghe intese. Impallinare Prodi permetteva poi di far rotolare il Pd verso l’accordo con il Pdl”, concorda. Non è d’accordo con chi accusa i renziani, inserendoli tra i possibili franchi tiratori: “Non credo, faccio molto fatica: Renzi stesso aveva tutto da guadagnare, si era speso per la sua candidatura. L’unico errore che fece fu la dichiarazione intempestiva dopo il voto, quando disse che la candidatura non c’era più”. Ancora prima dello stesso Prodi. Sui possibili tradimenti tra i bersaniani stessi, invece, sottolinea: “Un livello troppo raffinato di correntismo e della politica di palazzo che non riesco a interpretare. Troppo per me”. Al contrario, l’ex bersaniania delusa spiega: “Probabilmente anche tra i vecchi bersaniani qualcuno ha tradito: mi sembra assurdo che da persona intelligente non se ne sia accorto. Forse, dopo il risultato elettorale era talmente frastornato che ha riposto male la fiducia”.

LA DIFESA DEI RENZIANI – Anche dalla truppa di parlamentari e dirigenti vicini a Matteo Renzi arrivano le difese sulla vicenda Prodi: “Molti hanno tentato di mischiare le due cose su Marini e Prodi. Ma in quel caso noi siamo stati trasparenti. Io e tanti altri abbiamo detto che alcune tipologie di identikit personali non le avremmo votate, come Finocchiaro e Marini. Non una questione personale: semplicemente alcune figure che interpretavano una risposta sbagliata a una domanda giusta non l’avremmo votate. Il problema non era Marini, quanto il progetto politico”, sottolinea anche il deputato Mino Taricco, che ha sposato la linea di Matteo Renzi alle ultime primarie. Su Prodi e i possibili traditori spiega: “Noi siamo stati fedeli e io ho votato in maniera convinta, perché il Professore è stato una delle persone che mi ha spinto ad entrare in politica e sarebbe stato un grandissimo presidente”. Contrario alle larghe intese? “Si sarebbe discusso dopo. Non c’è nulla da andare orgogliosi nel suo impallinamento”. Anche secondo lui fu un’operazione politica: “Era più facile trovare un’intesa di governo senza di lui. Allo stesso tempo c’era anche chi aveva vecchi rancori contro di lui. Ognuno di noi ha individuati 7 o 8 possibili franchi tiratori, ma nessuno verrà mai allo scoperto. Tutto si regge sulla base di sensazioni, anche perché loro negano”, spiega. Eppure, sottolinea come “mariniani e dalemiani” abbiano fatto la loro parte, così come accusa i “giovani che si sono fatti instradare verso il nome di Rodotà”. C’è anche chi, come un giovane eletto nel gruppo renziano, aggiunge: “Confermo come noi renziani abbiamo votato con convinzione Prodi. Con Marini siamo stati onesti. Chi ci accusa lo fa per indebolire Renzi e la sua candidatura per la segreteria del Pd. Ma noi non abbiamo mai avuto paura del dissenso e quando siamo stati contrari lo abbiamo detto in modo palese”, si difende. Sui malpancisti e franchi tiratori ritiene si possano individuare tre gruppi: “C’era chi covava rancore per il mancato accordo su Marini, poi c’erano altri gruppi che volevano dare segnali a Bersani”. C’era anche chi non voleva, per motivi politici o personali, le larghe intese: “Alcuni vedevano a rischio la propria poltrona. Al contrario di Prodi, Marini aveva dato la possibilità di creare un governo insieme ai berluscones. In fondo, l’ha scelto lo stesso Berlusconi sulla rosa dei nomi”. Per il giovane renziano, quindi, non ci sarebbe soltanto, un mandante nel suicidio politico del Pd nella partita del Quirinale. Oltre ai renziani di vecchia data, c’è chi, come il presidente della provincia di Pesaro Urbino Matteo Ricci, uno dei dirigenti che stanno scalando posizioni all’interno del Pd, ha deciso da poco tempo di sostenerlo. Sui 101 franchi tiratori spiega: “Parte di quelli sono al governo, altri hanno responsabilità nelle commissioni. E’ incredibile che nessuno abbia voluto manifestarsi. E’ stato un atto di meschinità, non hanno nemmeno il coraggio di dire quanto fatto”. Ma chi sono stati i resposabili? Per Ricci è stato una vendetta personale, un mix tra correntismi o un chiaro disegno? “Io credo che sia il frutto di un partito troppo correntizio, che ha perso la bussola in un momento chiave per l’Italia. Per questo dobbiamo scardinare le correnti attuali, il nostro grave problema, in vista del congresso. Perché deve contare più Fioroni che i dieci migliori sindaci in Italia? Bisogna ripartire dai territori, dove il partito è molto più credibile che a livello nazionale. Deve andare avanti quella nuova generazione che è nata politicamente con il progetto del Pd”, incalza. “E’ difficile dire chi ha silurato Prodi: un mix tra mariniani delusi, forse qualche dalemiano. Quel che è sicuro è che da quella data si è creata una grande frattura tra il popolo del Pd e i suoi rappresentanti: la nostra gente non ha capito ancora”, ha spiegato.

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LA DIFESA DI CHI E’ STATO ACCUSATO – Eppure, nonostante le accuse di chi indica mariniani, ex popolari, dalemiani tra i franchi tiratori, queste aree rilanciano, attaccando a loro volta e puntando il dito contro i renziani: “Fedeli i parlamentari di Renzi? Non ci crederei nemmeno se avessi visto tutti loro scrivere Romano Prodi sulla scheda”, attacca un vecchio dirigente del Pd, considerato molto vicino a Massimo D’Alema, ormai non più deputato. “Noi abbiamo sempre discusso, ma nei luoghi adatti: per nostra formazione alla fine rispettiamo le decisioni del partito”, si difende. Anche da una parlamentare considerata vicina ai “Giovani Turchi” piovono accuse contro i renziani: “Sono stati loro i responsabili, insieme a chi covava rancore per la mancata elezione di Marini, a far saltare il nome del Professore”, spiega. A difendere i mariniani ci pensa invece Francesca Puglisi, volto del Pd bolognese: “Quello che è successo in quelle giornate drammatiche è stato qualcosa di scandaloso. Ma tutto è nato prima con Marini, la situazione è stata la stessa. Quella contraddizione interna si era manifestata già lì, in quell’altra proposta che io avevo votato in maniera convinta”, spiega. Punta il dito contro giovani e chi non rispetta le decisioni del partito: “In un grande partito quando si discute si può dibattere, ma in una partito le regole vanno rispettate. La decisione presa deve essere di tutti: anche noi, che abbiamo sostenuto Franceschini quando fu sconfitto da Bersani, dopo siamo stati leali con il segretario. Invece, in quelle due giornate sono venute meno le regole di base per sentirsi una comunità”, incalza. Difende l’area che fa riferimento all’ex sindacalista: “Colpe su Prodi? Non mi risulta che siano stati i mariniani. Ci sono stati molti furbetti che hanno pensato di mascherare il proprio voto con altre scelte, votando la Cancellieri di Sc o Rodotà. C’è stato chi si è astenuto”, spiega. Secondo lei non ci furono vendette su Marini: “Chi non ha votato Prodi non voleva dare la possibilità all’Italia di un governo. Per questo io ho votato Prodi: avrebbe dimostrato di poter portare l’Italia fuori dalla crisi”. Non ha molta voglia di parlare di franchi tiratori: “Come si arriva a 101? Questa ricerca non mi appassiona, è stata una sensazione spiacevole non sapere come la pensava il compagno di banco vicino. Mi da fastidio sentire in assemblea l’elogio del franco tiratore nella prima votazione e poi trovarli tra i segugi dei 101. Fa parte delle tante ipocrisie. Non mi riferisco all’area renziana, ma agli OccupyPd. Questi comportamenti non fanno bene”, incalza, sottolineando però come, a suo avviso, oggi c’è comunque “un grande presidente della Repubblica come Napolitano”.

I GIOVANI CRITICATI – Anche le giovani leve sono state oggetto di accusa: “E’ stato spiacevole, per noi che siamo nati con la generazione dell’Ulivo, venire accostati ai franchi tiratori. C’è qualcuno tra i vecchi leader del partito che vuole farci pagare la nostra elezione. Ma noi siamo stati eletti con migliaia di voti alle parlamentarie, al contrario di altri”, si difende una giovane eletta del Pd. “La cosa che più ci ha amareggiato? Qualcuno dei 101 ha criticato il gruppo dirigente nuovo, quello eletto con le primarie, perché “figlio dei social network”, troppo influenzato dalle proteste della base in rete. Noi sapevamo perfettamente che le logiche che stavano dietro a quel voto su Prodi. Questo progetto non nasce dalla fatalità. E’ stato portato avanti da un determinato gruppo di persone che adesso hanno ruoli di spicco di governo”, condivide la bersaniana delusa. Tra i giovani eletti c’è anche chi come Giuseppe Civati, simbolo della contrarietà alle larghe intese, nel libro di Alessandro Gilioli “Chi ha suicidato il Pd”, ha realizzato una piccola “guida” per rintracciare i franchi tiratori di Prodi. Tra i diversi “consigli”, si legge:

“Non ci vogliono le spie con i baffi finti per riconoscerli. Chi dice: che noia questa questione dei 101, guardiamo avanti!”, è uno dei 101 o un loro amico. O chi alzando le spalle dichiara mortificato: «E’ stato un errore», sa di dire una scemenza, perché se fosse stato un errore vi avremmo riparato la mattina successiva, dopo avere passato la notte a valutarlo e tentato di superalo”. Ma non solo: Chi afferma: «quelli che non hanno votato Marini sono come quelli che non hanno votato Prodi» è fortemente indiziato, perché chi non ha votato Marini lo ha detto, chi non ha votato Prodi no. Nessuno”. E allo stesso modo attacca chi sostiene l’inciucio di governo: “Ma soprattutto chi si è precipitato a chiedere l’intervento di Napolitano, chi non ha voluto nemmeno aprire il dibattito sull’elezione mancata di Prodi (che infatti non è mai stato aperto) e chi ha celebrato le larghe intese con molto slancio, è molto probabilmente un centounesimo”, si legge.

IL PARTITO SPACCATO E IL DIBATTITO SUL CONGRESSO – In vista del Congresso, ancora senza data, dai racconti dei più giovani emerge un partito ormai totalmente frammentato, dove i “capibastone” cercano ancora di influenzare il futuro del Pd, vittima della battaglia tra correnti. Così è già ripartita la battaglia per la nuova segreteria, con le diverse correnti e i papabili candidati che stanno cominciando a posizionarsi e stringere accordi. L’obiettivo sembra soltanto uno: fermare Matteo Renzi, il sindaco di Firenze in grande ascesa, dopo aver mitigato anche i toni della “rottamazione” delle scorse primarie e attirato molti delusi del partito, dopo gli errori delle ultime elezioni della segreteria Bersani, le larghe intese e l’autodistruttiva partita per il Colle. Dopo la nomina della Commissione Congresso, che rappresenta tutte le diverse correnti interne, è subito partito il dibattito sulle regole, con i vertici che sembrano puntare a restringere il campo della partecipazione, al contrario dei renziani e delle giovani leve, che spingono per primarie aperte. Allo stesso modo si continua a discutere dell’identità tra segretario e futuro premier, con l’ipotesi di modificare lo Statuto del partito, che stabilisce la corrispondenza tra le due funzioni. “Un’ipotesi comunque complicata, data che serve la maggioranza qualificata”, ricorda il renziano Roberto Reggi. Non è mancato chi ha chiesto di rinviare il Congresso, per il timore di causare attriti con Enrico Letta e il suo governo. Al contrario, non pochi, soprattutto tra i renziani, spingono per tempi brevi, chiedendo che si fermi il dibattito estenuante sulle regole. “Non possiamo vivere con la paura di non poter dibattere su nulla, dobbiamo cominciare a parlare di temi. Se ci sarà uno scontro, l’importante è che sia leale e costruttivo per il partito. E basato sulle idee. Basta con le dispute di tipo personale, hanno già fatto troppo male al partito”, attacca una giovane eletta.
RISCHIO RESTAURAZIONE – Le correnti sono per molti il nemico numero uno: “Il rischio è quello della restaurazione, bisogna allargare il campo e attirare nuove persone all’interno del partito”, spiega Matteo Ricci, presidente della provincia di Pesaro Urbino, che sottolinea come ci sia chi, all’interno del partito, vorrebbe far passare la sconfitta elettorale “soltanto come un errore di percorso”. Anche Lino Paganelli, “uomo d’apparato” che sostiene Renzi e storico organizzatore delle Feste democratiche, incalza: “Le regole devono essere aperte. Le primarie sono un elemento fondativo: non serve restringere la partecipazione, a meno che non si voglia mettere in conto di cambiare il soggetto politico”, sostiene. Punta a primarie aperte anche il prodiano Gozi: “Le regole attuali vanno bene, non si può sempre cambiare in base alle convenienze interne”. Secondo Sandro Gozi, il voto dovrebbe essere garantito “a tutti i cittadini che si dichiarino elettori del centrosinistra”, mentre spiega di essere “favorevole alla coincidenza tra premier e segretario”. Il motivo? “L’esperienza del centrosinistra ha dimostrato che il premier di una coalizione che non è anche leader del partito di maggioranza rischia di venire ricattato dal proprio partito”, spiega. Fa l’esempio dello stesso Romano Prodi, “fatto cadere da congiure di palazzo nel ’98 e nel 2008”: “Credo sia una lezione da cui trarre giovamento, anche perché è verosimile che si possa votare o il prossimo anno o nel marzo del 2015. Mi interessa un candidato premier che vinca e poi possa governare il paese”. Non tutti sono ancora scesi in campo: quelli sicuri sono al momento Gianni Cuperlo – proposto da Massimo D’Alema- l’europarlamentare Gianni Pittella e Giuseppe Civati. Ma da Fassina a Renzi, in molti devono ancora sciogliere le riserve: “Spero si candidi Renzi, mentre non capisco perché si parli di uno come Fassina appena nominato viceministro. Sono valutazioni che dovrà fare Fassina stesso. Indipendentemente dalla sua presenza, le sue idee devono vivere e confrontarsi al Congresso”, spiega Gozi. Questo perché spiega come sia necessario un confronto politico su idee diverse: “Fare un congresso finto, dove si va avanti per logiche di potere e di capibastone e si creano dei coaguli attorno al candidato vincente è sbagliato. Dal minuto dopo, tutti condizionerebbero il candidato vincente. I nomi sono secondari. “Passare dal “tutti per Bersani” al “tutto per Renzi” sarebbe deleterio”, aggiunge. L’obiettivo, anche se complicato, è eliminare il peso delle correnti personali: “Nel Pd non sono mai state sinonimo di pluralismo, ma soltanto aggregazioni autoreferenziali di potere per spartirsi posti e prebende. Qualcosa che fa male alle istituzioni, perché porta a nominare persone incapaci soltanto perché le correnti rivendicano quel posto”, attacca Gozi, spiegando come il correntismo abbia ucciso il merito. Per questo motivo bisognerebbe, secondo il parlamentare prodiano, organizzare il Congresso sulle idee e non sui nomi. Eppure, l’eventuale partecipazione di Renzi sarà decisiva: “A prescindere da chi appoggerò, starò dall’altra parte rispetto a chi ha fatto questo disastro. Meglio persone come Renzi o Civati, farò una scelta netta. Meglio rinunciare a una parte dell’identità che stare con chi ha permesso che il Pd prendesse questa deriva”, chiarisce la deputata ex bersaniana. Il sindaco di Firenze più volte ha manifestato il suo malumore, attaccando negli scorsi giorni Massimo D’Alema, che lo aveva invitato ad “aspettare le primarie del centrosinistra, permettendo di far eleggere un buon segretario”. Non era mancata la replica: “Non devo certo chiedere il permesso a D’Alema per potermi candidare”, aveva sottolineato, dopo aver denunciato la “caccia al piccione” realizzata contro di lui dai vertici del Pd romano. “Il Pd dovrebbe pensare più alle idee e meno alle regole”, ha incalzato, mentre Fassina – anche il viceministro è indicato tra i possibili sfidanti del sindaco, ndr – lo bacchettava, etichettando il suo “vittimismo” come “una strategia di marketing”. Se D’Alema sembra insistere con Cuperlo, Bersani aspetta e pensa alla conferma di Epifani per sbarrare la strada all’ascesa di Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze sembra quasi un soggetto estraneo all’interno del Pd, con le altre correnti che sembrano voler fare fronte comune contro di lui, nonostante le smentite. Tutti i vertici e le differenti correnti erano presenti all’assemblea dei bersaniani di “Fare il Pd”, con l’eccezione di Walter Veltroni (che aveva cercato di avvicinarsi a Renzi, senza troppo successo, ndr) e degli stessi renziani. Un chiaro segnale della spaccatura interna che rischia di far implodere nuovamente il Pd, dopo il congresso anticipato nella partita del Quirinale.

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