Stabilimenti balneari, come ti frego il cliente al mare

“O mare nero, o mare nero, o mare ne…”, fischietta il bagnino di uno stabilimento balneare di Santa Marinella, cantando una vecchia canzone di Lucio Battisti, nella “perla” del litorale romano. Dieci euro il costo di un ombrellone, che diventano cinque se si è già arrivati “a mezza giornata”. Tutto a discrezione del gestore. Scontrino? Fattura? Un miraggio. L’addetto alla “cassa” intasca le banconote con molta nonchalance. Quasi indifferente. File disponibili? Le ultime. Tutte le altre sono prenotate da clienti abituali. Chissà se per i più fedeli è previsto il rilascio di una fattura. Nel lido a fianco, invece, si strappano regolarmente le carte: “Ognuno lavora al meglio” commenta imbarazzata una collega. “Io degli altri non so, sto sempre qui”, si limita a rispondere la signora. Gli “altri” però sono tanti. Dal barista dove gustarsi il “piacere” del caffè, al ristoratore che vende supplì e pizzette, passando per i noleggiatori di pedalò e canoe: sono loro il volto dell’evasione fiscale in versione estiva.

evasione fiscale stabilimenti balneari  (9)

LANGUORINO NERO – Ora di pranzo. Si fa la fila davanti ad un chioschetto. Funziona come alle Poste. Si ritira il tagliandino e si aspetta il proprio turno. Tra i menù è esposta la scritta “munirsi di scontrino alla cassa”. Qualcuno “ci casca” e si presenta all’ordinazione con il pezzetto di carta battuto nel bar a fianco. Saranno al massimo due persone su trenta. Tutti gli altri invece si avvicinano ordinando diversi piatti. E se ne vanno senza scontrino. Dieci, venti, diciotto euro, dipende dalla fame. Se poi si vuole bere qualcosa basta salire sul lungomare, sedersi in uno dei tavolini ed ordinare. Nell’attività a fianco, in modo certosino, battono invece ogni centesimo: sia al tavolino che al bancone. Basta però fare due passi più in là, tra le bancarelle, ed ecco che all’ora di pranzo accadono strani giochi di prestigio.

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ER MAGO DELLA CASSA – “Due pizzeeee”, urla l’addetto alla cassa, nervoso, verso la cucina. Di fronte ci saranno almeno una ventina di clienti, tutti in attesa di pagare. Scorre nervosamente la lista degli ordini, depenna quello che è da pagare. “Due euro, sei, otto … facciamo venti” aggiunge. Una ragazza davanti a lui tende la mano col conto giusto. Lui afferra, porge il cibo e “tanti saluti” al consumatore. Su venti clienti, la cassa emetterà solo due volte carta. Il resto è un “via vai” convulso di monetine e resti, che piombano tra gli scomparti della macchina soltanto per esser accolti. Ma mai dichiarati. E’ la volta del nostro turno: due caffè e un gelato. “Tre e trenta”, precisa il signore che stavolta batte in cassa la cifra dovuta. Funziona così: soltanto il “piccolo” profitto si dichiara. A meno che non si sfoderi una carta di credito, proprio come la cliente che paga prima di noi. In quel caso non c’è nulla da fare. Il Pos penserà a dichiarare tutto il resto. Lo scontrino ricordo tra le nostre mani è invece il numero 61. Un numero troppo basso, se si considera che sono già le due del pomeriggio, in una domenica di sole di fine giugno. Quelle che i gestori di stabilimenti balneari attendevano da tempo,  dopo una primavera da freddo record.

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UN “MARE” DI EVASIONE  – Non dichiarare i ricavi non sembra essere una novità a Santa Marinella, così come in altre città del litorale romano. Nemmeno per i clienti. Nessuno sembra preoccuparsi o chiede spiegazioni. Legambiente l’ha definita quasi un’“evasione programmata”. Basta leggere qualche numero, tra gli studi di settore realizzati dall’Agenzia delle entrate sui gestori di stabilimenti balneari e le denunce di Guardia di finanza, consumatori ed associazioni, per accorgersi quanto il “non dichiarato” del turismo balneare incida negativamente per le casse dello Stato, già sotto stress per la recessione e la crisi del debito. E la loro parte la fanno anche i “ricavi in nero” dei titolari dei lidi del litorale romano. Ma quanti sono in totale gli stabilimenti delle coste italiane? Li ha censiti la stessa Legambiente, nel report “Mare Nostrum 2013”, che analizza anche lo stato di salute delle nostre spiagge. In tutte le coste italiane sono ben 12 mila gli stabilimenti balneari, uno ogni 350 metri di spiaggia: nel 2001 erano 5368, circa la metà. Oggi invece c’è un’occupazione complessiva di circa 18 milioni di metri quadrati, spesso “senza che vi sia alcun controllo”, si spiega. Ma non solo: non di rado, “a fronte di pochi euro pagati per la concessione, si verifica una vera e propria privatizzazione delle spiagge con guadagni milionari”, denuncia Legambiente. E spesso non dichiarati, così come ha scoperto in passato la Guardia di finanza con blitz a sorpresa. Non poche erano state le lamentele, da parte dei lavoratori del settore – circa 30mila sono le aziende italiane presenti, ndr – e delle associazioni di categoria, dopo le maxi operazioni anti evasione dell’estate 2011, quando era stato svelato il giro d’affari illegale “sotto l’ombrellone”. I dati parlavano chiaro: oltre il 45 per cento di ricavi non dichiarati, per un valore totale di circa 1 milione di euro. Oltre che un reddito medio rilevato di 86 mila euro, rispetto ai circa 18 mila dichiarati. Questi erano stati alcuni risultati raccolti dai funzionari della Direzione Provinciale di Roma dell’Agenzia delle Entrate sui litorali di Ostia, Fiumicino, Anzio, Fregene e Nettuno. Erano bastate una decina di verifiche per far emergere le differenze tra quanto dichiarato al Fisco e il reale volume d’affari. E la cattiva abitudine, numeri a parte, non sembra essere cambiata di molto.

AFFARI MILIONARI – L’evasione interessa ogni aspetto, come scopriamo nella nostra indagine tra i lidi di Santa Marinella: dal noleggio di ombrelloni e lettini, passando per i bar collegati agli stabilimenti, con tanto di servizi di ristorazione. O i famosi “grattaccheccari” romani. Scontrini e ricevute si vedono come un miraggio, mentre baristi e bagnini incassano banconota su banconota, senza preoccuparsi troppo di rispettare la legge. Tutto rigorosamente in nero. Ci aveva pensato il Wwf a ricordare qualche cifra sul giro d’affari degli stabilimenti balneari: “A fronte di soli 103 milioni di euro d’incasso per lo Stato, gli introiti degli stabilimenti erano enormi e in gran parte irregolari”, si leggeva nel dossier “Spiagge d’Italia: affare per pochi”, dove – considerati anche i 600mila lavoratori del settore dichiarati, anche in rapporto al potenziale fatturato per singolo occupato – si spiegava come la cifra dichiarata, pari a due miliardi di euro, non fosse ritenuta credibile. “Secondo le nostre ipotesi, si ipotizzano introiti fino a 16 miliardi”, si denunciava. In pratica, spiagge da affari d’oro: “Su quattro mila controlli annui sul litorale laziale le irregolarità accertate erano il 45%”, si aggiungeva nel report dell’anno precedente. Una percentuale che saliva al 61% se si considerava soltanto la parte relativa agli scontrini fiscali. Ma non solo: fino al 2011, i gestori degli stabilimenti balneari godevano del “privilegio” dell’esenzione del rilascio degli scontrini fiscali per le attività collegate alla balneazione. Così, chi noleggiava lettini, sdraio ed ombrelloni era obbligato ad emettere una ricevuta soltanto se questa veniva richiesta dal cliente. Poi, nella morsa della crisi economica e con l’erario sofferente, quello che veniva visto come un regime fiscale troppo benevolo per i lavoratori del settore fu modificato, con la “reintroduzione dell’obbligo di certificazione dei ricavi conseguiti dagli stabilimenti balneari, attraverso l’emissione di ricevute o scontrini fiscali”. Una misura che era diventata necessaria per contrastare un’evasione fiscale a livelli preoccupanti, come testimoniavano i blitz dell’Agenzia delle Entrate. Ma che non sembra essere riuscita a modificare le cattive abitudini di alcuni lavoratori poco onesti, nonostante gli inviti delle associazioni di categoria a rispettare la nuova normativa. Le stesse che in passato non hanno però molto apprezzato le operazioni a sorpresa, rifiutando l’etichetta e l’immagine di “evasori” riservata da media e opinione pubblica al settore. Quando l’Agenzia accertò il 50% di ricavi non dichiarati, c’era chi difendeva gli interessi della categoria, invitando a “non scambiare per evasione uno scontrino per un caffè non battuto in un momento di caos nel bar della spiaggia”.

I CINQUE METRI CHE NON ESISTONO –  Ma non c’è soltanto il problema dei guadagni non dichiarati allo Stato. C’è anche la questione del rispetto della normativa sulla famosa fascia di 5 metri tra la battigia e l’inizio delle file di ombrelloni. Uno spazio che dovrebbe essere garantito ai cittadini, consentendo libero accesso e la possibilità per chi vuole di passeggiare senza limitazione. Ma esiste davvero? In teoria sì, in pratica spesso gli stabilimenti arrivano a ridosso del bagnasciuga. Come succede anche a Santa Marinella. Basta fermarsi a parlare per qualche minuto per “urtare” la sensibilità dei gestori e dei bagnini dello stabilimento. “Qui scusate non ci potete stare”, ci dicono. Un bagnino spezza i nostri sogni per “un posto al sole”. A Santa Marinella ci sono soltanto due brevi spazi di spiaggia libera: nei lati estremi e con sprazzi di sabbia mista scogli. “Questa è zona di transito”, ci spiega. Peccato che i cinque metri previsti dalla legge non vengano rispettati. Altri sono meno comprensivi, sembrano infastiditi anche dal semplice passaggio delle persone. O fanno fanno finta di non conoscere la legge. Altra “cattiva abitudine” dei litorali romani, come denuncia anche Legambiente:

“Il lido di Ostia, la spiaggia dei romani, rimane certamente uno degli esempi di punta. Ogni estate sale alla ribalta delle cronache per le denunce dei bagnanti che si vedono negare l’accesso gratuito al mare: “Se vuoi passare devi pagare il biglietto”, è questa la risposta standard alla richiesta di arrivare fino al bagnasciuga.

Altro che bene comune. Nonostante quanto previsto dalla Legge 296/2006, con l’obbligo per i titolari di concessioni di “consentire l’accesso libero e gratuito per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine della balneazione”, mare e spiagge, anche nel Lazio, sembrano essere diventate proprietà privata.

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LA DIATRIBA SULLE CONCESSIONI – Se lo Stato spesso non incassa e il nero spopola tra le coste italiane, i gestori degli stabilimenti potranno usufruire anche della proroga decisa lo scorso dicembre dal Parlamento sulle concessioni demaniali balneari in scadenza. Fu uno dei nodi più controversi del vecchio decreto sviluppo, con i lavoratori del settore che potevano contare anche sull’appoggio bipartisan del duo composto da Simona Vicari (Pdl) e da Filippo Bubbico (Pd), che spingevano per cristallizzare il tutto sino al 2045. Ma l’Unione europea e il governo Monti non erano dello stesso parere, considerato quanto previsto dalla direttiva Bolkestein, sulla liberalizzazione del settore e l’indizione di un’asta. E il rischio di multe. Alla fine si è deciso per una miniproroga di 5 anni, che ha spostato la scadenza al 31 dicembre 2020. Tale misura, approvata dal parlamento con la contrarietà del governo Monti, è stata comunque giudicata insufficiente dai sindacati balneari, secondo cui non basta per recuperare e ammortizzare gli investimenti realizzati negli anni. Diverso il parere di Legambiente che, nel report “Mare Nostrum 2013″ mette tra le sue richieste il rispetto del diritto all’accesso alle spiagge, oltre che l’introduzione dei limiti all’occupazione dei litorali con concessioni.”Come in Puglia, almeno il 60% della lunghezza del litorale e della spiaggia deve rimanere libero da strutture e installazioni private. La durata delle concessioni non deve eccedere i 6 anni, rendendo obbligatorio un sistema di gare per la selezione che includa tra i parametri principali la sostenibilità ambientale, la tutela del territorio, la premialità per imprese familiari e cooperative locali”, si conclude. Intanto, però, la controversia con la Commissione europea non è ancora stata risolta: pur riconoscendo la necessità di tutelare un settore rilevante per l’economia del Paese, l’Ue non intende fare passi indietro sull’applicazione della direttiva. Il rischio è che la proroga fino al 2020 possa spingere a una riapertura della procedura d’infrazione, (aperta e poi sanata con la legge comunitaria del 2010, ndr) anche perché manca ancora una proposta sulle modalità di attribuzione del demanio pubblico per gli seguenti al 2020.

 

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