Land grabbing, il latifondo delle corporation

17/04/2013 di Mazzetta

A un certo punto della storia umana il latifondo è stato considerato da molti l’essenza stessa dell’ineguaglianza, un totem da abbattere frazionando le enormi estensioni di terre, spesso incolte, accumulate dalla nobiltà.

IL LATIFONDO CHE PROSPERA – L’operazione si rivelò più complicata in quei paesi dove il latifondo era stato esportato con successo dal colonialismo europeo, che dismessi i panni della nobiltà aveva assunto quelli anche più rapaci delle società per azioni, e che in nome della meccanizzazione e industrializzazione del settore agricolo garantì la sopravvivenza di enormi proprietà terriere, tipicamente dedicate ai pascoli o alle monocolture. Lo stesso destino toccò ai paesi che s’ispirarono al socialismo, anche se alle enormi proprietà collettivizzate erano poi formalmente affidate a una miriade di cooperative e non certo a una corporation straniera. Non esiste una misura precisa oltre la quale una proprietà si definisce latifondo, molto dipende dalle condizioni dei luoghi e dei paesi. In un paese enorme come il Brasile ad esempio si considerano convenzionalmente le proprietà come latifondo quando eccedono i 1.000 ettari.

LA CORSA ALLA TERRA – Nell’ultimo decennio però si sono affacciati nuovi investitori che hanno messo al centro del loro interesse la terra e la produzione agri-forestale. Vuole la vulgata degli ultimi tempi che si tratti d’investitori di paesi a corto di terra, ma non di persone da sfamare, che in tal modo si preoccuperebbero saggiamente e legittimamente della sopravvivenza. i numeri però dicono altro e in pochi casi come questo i numeri raccontano una storia diversa.

LE MISURE – Per orientarsi tra i numeri, è utile sapere preliminarmente e per poter farsi un’idea delle grandezze in questione, che l’Italia ha una superficie di 30 milioni di ettari e che una regione come la Liguria copre poco più di mezzo milione di ettari. Il più grandi latifondisti italiani sono i fratelli Benetton, che controllando la Compania de Tierras, sono i più grandi proprietari privati di terreni in Argentina, dopo lo Stato e quindi anche i maggiori latifondisti argentini con più di 970.000 ettari di terra che arrivano fino alla Patagonia. L’investimento dei Benetton in Argentina, dove possiedono oggi quasi il doppio del territorio ligure, rappresenta proprio l’esempio ante litteram del fenomeno denominato “land grabbing”, con il quale s’intende convenzionalmente il “prendere” da parte di compagnie e investitori estranei ai paesi e alle regioni dove spesso quelle terre sono già occupate dai locali, che presto si ritrovano limitati nei movimenti dall’apparire di enormi proprietà private e  dopo qualche decennio un territorio impoverito e inquinato dopo la deforestazione e le colture intensive. Per non parlare dell’accaparramento di altre risorse naturali e quanto mai pubbliche come l’acqua, ovviamente destinata in preferenza al business.

UN DISASTRO – Stranieri che acquistano o ottengono in concessione per periodi lunghissimi dai governi e da altre amministrazioni pubbliche e quindi passano a proteggere i loro nuovi beni estromettendo dal loro godimento comunità che spesso su quelle terre vantano diritti ancestrali, quanto spesso facilmente disintegrabili dall’opportuna corruzione o da una pioggia di commissioni. Così l’esperienza dei Mapuche è presto diventata patrimonio comune di molti altri popoli e negli ultimi anni il fenomeno si è diffuso esponenzialmente. In Senegal ad esempio un’altra azienda italiana, la Senhuile SA, (controllata al 51% dal Gruppo Finanziario Tampieri), si era accaparrata 20mila ettari di terreno nella vallata del fiume Senegal per 100mila dollari l’anno, cioè solo 3,5 euro all’anno per ettaro, ma il progetto è stato sospeso dopo una rivolta dei locali e a scontri di piazza che hanno provocato morti e feriti. Anche gli Adjap in Camerun si sono ribellati dopo un accordo che ha venduto a una multinazionale i due terzi dei loro territori, e si tratta ancora di esempi minimi.

LA RAPINA – Secondo Land Portal l’11% delle terre brasiliane ha già subito questo destino, insieme al 10% di quelle in Sudan, l’8% in Madagascar, Filippine ed Etiopia, il 7% in Mozambico e il 6% in Indonesia, ma solo in Sudan ed Etiopia si tratta d’investimenti destinati all’alimentare, il resto sono coltivazioni destinate all’industria dei biocarburanti, come la jatropa o la palma da olio.

I REGALI – L’estensione complessiva del fenomeno varia a seconda delle fonti, ma l’ordine di grandezza è quello dei milioni di ettari, Friis & Reenberg nel 2012 dicono tra i 51 e i 63 milioni di ettari solo in Africa: due Italie fatte solo di terreni agricoli. Stime alle quali sfuggono i contratti formalmente “locali”, che vedono titolari locali e capitali esteri. Un milione di ettari in una sola volta se li è assicurati ad esempio la texana  Jarch Capital con la sua Nile Trading and Development Inc  Sud Sudan, 49 anni d’affitto a 25.000 dollari all’anno per un territorio che è due volte la Liguria. È vero che in Sud Sudan non ci sono infrastrutture, nemmeno le strade, ma il canone resta imbarazzante.

I BIOCARBURANTI – Un fenomeno che negli anni scorsi aveva assunto grande rilevanza, quello dell’improvviso interesse dei petrolieri per l’agricoltura, e che ha determinato un feroce aumento dei prezzi degli alimentari, visto che si coltiva per fare benzina e si dismettono le coltivazioni edibili. Ecco allora che una robusta campagna di pubbliche relazioni è riuscita nell’intento di pervenire al rebranding del fenomeno.

IL GREENWASHING – Comprare a prezzo di saldo la terra ed espellerne i legittimi proprietari che ne ricavano il loro sostentamento per fare benzina da mettere nei serbatoi dei paesi ricchi è proprio una brutta cosa. Ancora di più se poi fa impazzire i prezzi degli alimentari e condanna ancora più persone alla fame. Ma se un paese quella terra la vuole per sfamare i suoi affamati è diverso, e così il “land grabbing” da un po’ di tempo viene presentato così, senza fare una parola dei biocarburanti. Che non sono affatto bio, ma solo un fantastico espediente per permettere alle corporation petrolifere di controllare la distribuzione di carburanti mettendoci dentro un po’ d’idrocarburi ricavati dalle piante e di passare così per venditori di prodotti “verdi”.

IL POTERE DEI SOLDI – Restava il problema delle accuse di devastazione del mercato dei prodotti alimentari e l’hanno risolta così, professionalmente, riuscendo a far sparire dal dibattito pubblico la questione dei biocarburanti, già rivelatisi un fallimento e una truffa dal punto di vista dell’ecologia. Oggi si parla di land grabbing e di paesi affamati che cercano terre incolte per nutrire i propri cittadini, che è tutta un’altra cosa da una realtà che già da tempo ha suscitato scandali, che è quella di un business devastante ed eticamente impresentabile. Un grande successo e una perfetta dimostrazione del potere che certi interessi hanno di plasmare il discorso pubblico e il mainstream, quasi a loro piacimento.

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