I bambini sfruttati per l’olio di palma

09/04/2013 di Alberto Sofia

Migliaia di bambini sono sfruttati in Malesia nella raccolta dei frutti dai quali si ricava l’olio di palma. La denuncia arriva dall’Atlantic, che spiega come più della metà dei prodotti venduti nei supermercati americani – dai cosmetici alle barrette di cioccolato – contengano il prodotto. Dietro la sua raccolta si nascondono però, nelle piantagioni del Borneo, le storie di tanti ragazzini, costretti a ritmi di lavoro impressionanti. Manodopera a basso costo, in maggior parte figli di lavoratori migranti e apolidi. E senza diritti, dato che viene loro negato l’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie.

I MIGRANTI SFRUTTATI IN MALESIA – L’Atlantic racconta la storia di Leonary Marcus, uno dei circa 50 mila bambini apolidi indonesiani che vivono nella provincia di Sabah, nel cuore del paese che produce olio di palma. Altri migliaia di minori sono arrivati dalle Filippine, in modo da soddisfare una domanda continua di lavoratori a costi quasi nulli. La Malesia è oggi il secondo produttore mondiale di olio di palma. Leonary per la Malesia era un bambino inesistente: dopo essersi trasferito dall’Indonesia da ragazzo insieme ai proprio genitori – anche loro lavoratori del settore – ha frequentato un centro di apprendimento gestito da un’organizzazione locale no profit. Non aveva però documenti legali, tanto che gli è stato impedito di frequentare la scuola secondaria: per Leonary l’unica scelta era quella di lavorare nella stessa azienda agricola dei genitori, in cambio di 7.50 dollari al giorno. Senza documenti che dimostrano la nazionalità, ai ragazzini apolidi è negata l’assistenza sanitaria, così come l’istruzione. Tutto mentre il resto della regione continua a godere dei frutti del loro lavoro. 

PROFITTI DELL’OLIO DI PALMA– Si calcola come nel 2011 le esportazioni di olio di palma e dei prodotti che lo contengono abbiano permesso di realizzare profitti per 27 miliardi dollari. Una crescita impressionante rispetto agli ultimi dieci anni (cinque volte maggiore), grazie al commercio con Cina, Unione Europea, India e Stati Uniti. Negli Usa più della metà dei prodotti venduti nei supermercati contiene olio di palma. E con le nuove regole sulle etichette, la domanda è risultata anche in aumento, in modo da eliminare altri tipi di olio. Per il Sabah è una buona notizia, dato che da quest’area proviene un terzo della produzione del paese. Basta fare un paragone con 25 anni fa, quando Lahad Datu, il capoluogo di provincia, era ancora un centro arretrato e dimenticato, dove la sera era meglio restare in casa, per evitare problemi di sicurezza. Negli ultimi 15 anni la popolazione della città è raddoppiata, in parallelo con la crescita economica. Non sono mancate le contraddizioni: i prezzi degli immobili sono quadruplicati, il traffico ha intasato le vie della città. “Ma i tempi della delinquenza dilagante sembrano lontani”, si spiega sull’Atlantic.

SENZA DIRITTI – “La qualità della vita qui è notevolmente migliorata”, afferma un leader della comunità locale. Il governo prevede di raddoppiare la superficie complessiva coltivata entro il 2020, con altri problemi relativi al progressivo consumo di suolo. Ma dietro lo sviluppo si nasconde soprattutto il dramma dei giovani lavoratori migranti, vittime anche delle discriminazioni del resto della popolazione, che li accusa di essere la causa di disordini e di erodere cultura e tradizioni locali. In pochi si interessano del destino di chi permette alla popolazione locale di cominciare a godere dei vantaggi della crescita economica. Tutto mentre, come ha riportato il quotidiano locale Times Business, la Malesia avrebbe bisogno di altri 40 mila lavoratori aggiuntivi perché carente di manodopera, per evitare di perdere i profitti (per 986 milioni dollari) delle esportazioni potenziali. Ma nessuno parla delle condizioni dei migranti, né sembrano essere proposte misure per permettere ai ragazzi di accedere a livelli minimi di istruzione e cure sanitarie. “La gente del posto crede che estendendo i diritti ai figli dei migranti, saranno i propri bambini a perderli”, spiega una donna che si occupa della tutela dei giovani lavoratori apolidi. C’è chi vorrebbe delegare la questione soltanto alle stesse aziende produttrici: “Anche le imprese multinazionali stanno facendo soldi, dovrebbero essere loro a sostenere i minori stranieri”, si difendono.

LE PROSPETTIVE – Ci sono almeno alcune associazioni che si occupano dei giovani ragazzi. Tra queste, la “Humana Child Aid Society” di Torben Venning, un attivista danese che insieme ad altri colleghi si è trasferito in Malesia e ha istituito – anche grazie agli aiuti economici dell’Unione Europea – 128 centri di apprendimento. Istituti che oggi permettono a circa 12 mila bambini di accedere almeno a un’istruzione di base. Anche alcune imprese stanno cominciando a investire per creare centri simili, anche se secondo Venning la situazione è ancora pesante per migliaia di bambini, ancora senza diritti.

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