Il gigante e la bambina

Ama e fa quel che vuoi

“Mamma, esco con…” Ops. L’ha detto. Aveva promesso che poi no. Se lo teneva tutto per se. Tutto quel segreto di felicità. Se lo sarebbe tenuto volentieri dentro, quell’empito di gioia, tutto quell’inizio di una nuova vita. Quell’unico indizio dell’immenso. Quel ricominciare il vero amore. Ma Olga Julia Calzoni è un otre troppo piccolo per una notizia tanto grande. Uscire ancora con lui, il suo unico uomo. Il suo unico. E solo. Dopo due anni che boh, non se la filava più. Perché era troppo piccola. Ora Olga Julia è grande, benché non sappia ancora come si fa a restare indifferenti e silenti dinanzi una seconda opportunità che la vita da’. La portano ai Navigli. In cambio ha dovuto solo stare zitta sulla cosa. Sull’uscita. Che nessuno sappia, che se no poi salta. Sarà vergogna, saranno giorni strani. In fondo sono adulti. Sanno bene quel che fanno. O almeno. Bisogna credere che lo sappiano. E’ il mestiere dei pischelli e delle signorine giudiziose. Magari è solo per civetteria con una donna, solamente per un tono. Misterioso, strano, affascinante. Lusinghiero. Una lusinga troppo grande. Per viverla da sola. Magari tireranno fuori quei discorsi di politica agli antipodi. Loro che stazionano nella San Babila dei film. Loro che non han mai paura di niente, della scuola, degli agguati. Guarderanno lei, che ha paura quando è il caso ma anche coraggio se vale la pena, proprio lei che non è stata mai da nessuna parte, lei che non è stata ancora niente. Guarderanno lei come se fosse la prova del nove. Come se fosse tutto il mondo da convincere e sedurre. Proprio lei che non è mai al sicuro come la conferma di tutto ciò che voglion essere. E lei lo sa, l’immagina. Lo sente. Mai sentita così. Amata, desiderata. E lei lo sa, per questo va. Al buio, come luce. Come tu mi vuoi, amore che di me hai bisogno. Con il ghigno da fascista temerario. Con gli occhi grandi pieni di tenera paura. Saranno in tre, lei, l’amore e il suo migliore amico. Un posto orribile, anche per la Milano del ’76. Un posto orribile e romantico, dove ci vanno le coppiette e i criminali. A far l’amore o a commettere delitti. Ma in fondo tra le due cose che differenza vuoi che faccia. Olga Julia è grande. Ha solo sedici anni. E’ una bambina. In fondo. Molto in fondo. Dove sta per scivolare.

«Chi non terrorizza / si ammala di terrore»

“Nanniiii, aiutaci, le bici sono in fondo alla discarica !”. C’è da scivolare un po’. E soprattutto. Quelli sono ancora lì. Che ridono. Fanno la guardia. Che le zoccole mordano le ruote e nessuno s’azzardi a violare il loro gesto. Il loro imper(i)o. La discarica a cielo aperto è un rigagnolo sotto un ponte. Lì son finite le due bici dei bambini. Sono stati i fascisti. Gente dei Parioli, bulli. Le lucciole forse hanno lasciato Roma nel 1980, i fasci non ancora. Ma ora ci pensa Nanni, il drizza torti del quartiere. Guardarlo intervenire in difesa dei più deboli, non di qualcuno ossia ma solo dei nessuno, è uno spettacolo. E’ un gigante. Ha un fisico scolpito dalla forza di natura. Quella che ti viene se l’hai dentro. Una volta a un concerto rosso ha seminato il panico tra i suoi aggressori. Trenta contro due. L’amico, presto dileguato. Accerchiato. Svilito. Vilipeso. Poi la svolta. Nanni che comincia ad emettere suoni strani, incomprensibili. Non è pazzia. Son gli schemi del football amerikano. Sconosciuti a tutti. E lui li chiama. Per se stesso. Si piega. Dà dei numeri. Corre in una direzione. Carica. Punta. Meglio di un’arma. Sfonda. Guadagna yards umane. Si galvanizza. Una, due volte. Via. Non lui. Quegli altri. Nanni ora sta menando i due pischelli. Due semplici schiaffetti bastano per smontare un piano di conquista di due ruote e un fil di fogna, avanzano per disegnare un mondo di possibili percosse, di possibile dolore. Come si permettono. Non si toccano i bambini. Fasci della domenica, li chiama. Dopo averli costretti a recuperare il mal tolto, sporcandosi i monclair o gli stivali a punta, con il naso arricciato dalla puzza e quegli occhiali a specchio ormai ridicoli. Fasci da discoteca, rovina. Prossima volta, dovesse mai esser possibile solo pensare di ribeccare quel gigante contro sulla propria strada, non la potranno raccontare ai camerati. Non con i propri denti. Fasci da discoteca, disonore, vili. Che rovinate tutto. E si perché di fasci buoni e veri, come dovrebbero essere, come vorrebbe il codice o l’onore, Nanni De Angelis il fascista come da manuale se ne intende. Ora che giustizia è fatta, si va a scuola. Margherita lo spia arrivare. Come tutti i giorni da quando erano insieme, lui foresta intera e lei piccolo fiore, negli scout. Lui capo, lei giovane soldato. Non prende più ordini in amicizia dal gigante, la bambina. E’ grande. E’ di sinistra. E lui no, rimasto identico però. Con quella fascia tra i capelli belli. I modi da straniero. Il senso di giustizia. Stamattina ne combinerà di sicuro una delle sue, meglio seguirlo ancora. Come tutti i giorni. Tanto il ragazzo che ha Margherita è altrove. In ospedale. Lo hanno menato i fasci. E’ della Fgci. No. Nanni non c’era. La prima cosa cui lei aveva pensato, la prima domanda cui aveva coraggiosa risposto, la prima cosa vera e certa e giusta su cui avrebbe in silenzio giurato. Sei contro uno, poi. Assurdo. Come pensare a lui. Nanni non c’era, e non ci sarebbe stato. Lei lo sapeva bene. Nessuno al mondo meglio di lei. Quella mattina lo aveva trovato con il repubblicano. Sei contro uno. Un ragazzetto. Un bambino. Un bimbetto, vessato a destra come a sinistra. Con l’aria antipatica. Perché quella la sofferenza non te la toglie. Anzi. Se c’è pure quella, l’ingiustizia, ti induce al disprezzo. Un povero scemo borghese, da partito dei ricchi, da senza sogni. Coi manifesti di Ugo La Malfa. Un uomo vecchio e verboso dal fascino incomprensibile agli occhi e agli ormoni. Una snobberia, una voglia matura di centro in un bimbetto da punire in un mondo di occhi ed ormoni diviso alle estreme e mai a metà. Però unito contro il comune nemico. Specie, da solo. Sei contro uno. Il gigante gli teneva la scala. E gli guardava le spalle.

SONO VIVA. ABBASTANZA – Come la vogliono. Olga Julia del ’76. Viva abbastanza per incidere un nastro in quell’auto prima poi di partire. La richiesta di aiuto a mamma e papà per un (finto) sequestro. Le risa. Era solo una burla. Feroce. Di cattivo gusto. Antiborghese. Come Berenger, i marsigliesi, i filmacci di pula e fascisti che a loro due piacevano tanto e si, Olga Julia, ti ci porta poi un giorno anche te. Se stasera non muori. Ora mentre va incontro alla morte, scortata in silenzio, Olga Julia si sente strana. Come si sente da quando è nata e ha in uso il ricordo: come una che ha sbagliato qualcosa, ha fatto male, ha fatto del male, non sa cosa né come né dove né quando. A chi. O perché. Però in fondo è felice. Tutte le donne sentono questo. Tutte le donne si sentono così. Fuori posto, ‘chè ne han uno assegnato. Forse allora non è che si sente strana. Forse non è per la borsetta buffa dell’anno scorso, quando ancora portava le trecce e di sicuro lui alle sue spalle fa smorfie ancora. Non è per la risata troppo squillante quando ha liberato la tensione dell’aver registrato quel falso grido d’aiuto alla mamma.

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