Con l’arresto di Zagaria lo Stato ha vinto solo a metà. E la ‘zona grigia’ della camorra continua a fare affari

04/10/2017 di Donato De Sena

«Dieci minuti dopo averle affisse le locandine non c’erano più. C’è ancora una cappa di oppressione, non siamo liberi di avere un’idea diversa. Abbiamo bisogno di un supporto». Le parole di Betti, insegnante e attivista dell’associazione per la legalità Ultimi, raccontano bene come in una terra ferita dalla camorra sia difficile mettere in moto e realizzare il cambiamento, nonostante l’arresto di tutti i boss di spicco dell’organizzazione criminale e la resa di numerosi fiancheggiatori. Siamo a Casapesenna, a un passo da Casal di Principe, il paese di Michele Zagaria, l’ultimo dei grandi capi dei Casalesi finito in cella. È un martedì pomeriggio. In un locale di via Petrillo arrivano il procuratore aggiunto della Dda di Napoli Giuseppe Borrelli e due giornalisti costretti a vivere sotto scorta per aver parlato dei clan e dei loro uomini, Sandro Ruotolo e Marilena Natale. Nella sede di Ultimi davanti a una trentina di persone si parla di risultati conseguiti da forze dell’ordine e magistratura nell’ultimo decennio, di affari sporchi e arresti eccellenti, ma soprattutto di borghesia mafiosa, di collusioni, di imprenditori e professionisti compiacenti che fanno da cuscinetto tra la ferocia dei camorristi e la gente che li vorrebbe alla sbarra.

 

camorra
(Foto di Giornalettismo)

 

È quello il terreno sul quale infliggere ai Casalesi un colpo ancora più duro di quello già inferto fissando le manette ai polsi dei vari Schiavone, Bidognetti, Iovine e Zagaria (gli ultimi due individuati nel 2010 e 2011) e al quale gli investigatori stanno negli ultimi tempi dedicando maggiore attenzione. «L’arresto di Zagaria non ha risolto niente. Se da una parte c’è uno Stato che continua a lavorare sul territorio dall’altra c’è una zona grigia che continua a fare gli affari della criminalità organizzata», dice Marilena Natale. La sensazione, condivisa, è che il territorio della camorra decapitata non abbia ancora gli strumenti per liberarsi del fantasma dei boss. Si ha la percezione che la prospettiva di riorganizzazione militare dei clan sia ancora viva e che l’economia collusa sia pronta a rifiorire, a tornare ai vecchi fasti. In un simile scenario molti abitanti conservano lo stesso vecchio timore di esporsi, segnalare, manifestare il proprio dissenso. «Non basterebbero 5 mila soldati» a controllare tutto il territorio, dice Ruotolo. C’è bisogno che la denuncia venga definita «non un atto di spionaggio ma un di resistenza civile». «Abbiamo avuto dei risultati, tra il 2005/2006 e il 2010 sono state arrestate migliaia di persone. Serve scuola, cultura, lavoro».

«SE OGGI UN CASALESE VUOLE COLLABORARE NON NECESSARIAMENTE DICIAMO DI SÌ»

Il punto di arrivo è chiaro ma spetta al procuratore fare chiarezza sul presente dando segnali e risposte. Borrelli lo fa evitando ogni sorta di disfattismo, invitando a non dimenticare i risultati conseguiti («È vero che molto è da fare ma non si può trascurare tutto quello che è stato fatto», dice subito all’inizio del suo intervento) e soprattutto fornendo qualche indicazione sulla strategia adottata dalla magistratura. Quella di dare meno peso alle collaborazioni dei pentiti e seguire con maggiore attenzione la scia del denaro. «La situazione è molto diversa da quella che c’è stata fino all’arresto dei super latitanti», spiega il procuratore. «Se oggi ricevessimo da parte di qualcuno dei capi storici dei Casalesi l’offerta di collaborare con la giustizia la nostra risposta affermativa non sarebbe scontata. Non necessariamente ne avremmo bisogno. Questo è il punto a cui è giunta l’attività investigativa della procura di Napoli». La procura non è ovviamente contraria alle collaborazioni ma è disposta a rifiutarle per evitare che si trasformino in escamotage o amnistia. «C’è stato qualcuno tra i Casalesi che si è pentito non dopo l’arresto ma mentre arrivavano i carabinieri: uno sentendo la macchina dei carabinieri è uscito di casa e ha detto ‘Mi pento’. Non può accadere che uno uccide, estorce, terrorizza, incendia, fa affamare la gente, poi dice ‘Mi pento’, dice quello che vuole dire lui, e dopo tre anni sta fuori. Non poteva continuare così, non era logico, e non è continuato».

«ORA RICOSTRUIAMO I FLUSSI ILLECITI E PRESTO VEDRETE I RISULTATI»

Cambia insomma il punto di vista: si guarda al potere economico più che a quello militare o intimidatorio. E non è solo una questione di persecuzione di reati. Ma anche di esempi da dare ai giovani. «Il punto fondamentale è che i camorristi continuano ad avere un tenore di vita ordinario. Ma se chi ha lucrato con affari illeciti continua ad avere lo stesso tenore di vita, si presume sulla base delle stesse ricchezze illecite, qual è il vantaggio dell’essere persona perbene rispetto all’essere camorrista?». «La battaglia contro la camorra – è il messaggio di Borrelli – sarà vinta quando i camorristi, per mangiare, dovranno andare a lavorare. Nessuno vuole tenerli digiuni, ma quantomeno andassero a guadagnarsi il pane come tutte le persone normali». Dunque – spiega ancora il procuratore – «ci stiamo impegnando nella ricostruzione dei flussi di denaro illeciti, che è una cosa più complicata dell’andare ad arrestare chi fa estorsioni. Non è uno slogan. E vedrete, da qui a poco, come siamo stati in grado di ricostruirli».

Guarda il video:

 

Si ritorna dunque alla già citata zona grigia. È inevitabile. Quando si parla di camorra e denaro non si può non parlare di quella borghesia campana che con la criminalità organizzata mantiene un sottile legame di solidarietà. Un vincolo che secondo Borrelli può essere rotto solo se c’è una pressione sociale, «se le forze che organizzano il consenso, i partiti politici, si rendono conto che è più conveniente operare in una direzione piuttosto che in un’altra». È il grande ostacolo della battaglia. Il ruolo di famiglie, scuola, associazioni, media. «Oggi si dà per scontata una vittoria che non c’è stata», ripete Marilena Natale. «Zagaria è stato latitante per 16 anni, grazie anche a imprenditori e colletti bianchi». Il prossimo passo da compiere riguarda «la cultura e l’educazione», «la militarizzazione va bene fino a un certo punto». «I risultati che abbiamo ottenuto nei confronti del Clan dei Casalesi verranno consolidati nel corso di quest’anno – ribadisce Borrelli – e si raggiungerà sicuramente un punto di non ritorno. Ma questo non è sufficiente. Cambiare determinate condizioni tocca alle persone». Anche a quelle che oggi rimuovono le locandine del dibattito o non hanno voglia di leggerle. Chissà, forse un giorno saranno loro ad essere in minoranza a Casapesenna. In fondo «quello che stiamo facendo qui dieci anni fa non si faceva», riflette qualcuno nel corso del dibattito ricordando che il clima, al di là di tutto, è cambiato. L’imperativo è continuare.

(Foto di copertina: ANSA / CESARE ABBATE)

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