Tutti contro Lapo Elkann, ma siete tutti pecore con gli Agnelli

29/11/2016 di Boris Sollazzo

LAPO ELKANN –

Che bravi i moralisti in servizio permanente effettivo. Lapo Elkann chiede un finto riscatto per un finto rapimento dopo un festino trans di un paio di giorni, viene beccato e tutti a fare meme, a coprirlo di insulti, a stigmatizzarlo. Sparare su Lapo Elkann è uno degli sport preferiti dell’italiano medio: è ricco, è pacchiano, è bizzarro. Ha anche quelle perversioni sessuali che tutti stigmatizzano, sebbene, come ricorda persino Frankie Hi Nrg in “Quelli che benpensano” sono “quelli che la notte non si può girare più, quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV“. Sebbene, basta consultare una qualsiasi inchiesta sulla prostituzione, i trans siano i più richiesti al mercato del sesso. Ma si fa finta di nulla, “altrimenti le altre mani chissà cosa pensano”.

Eppure Lapo Elkann è l’uomo da crocifiggere, sempre e comunque. Perché quelle sue macchine potentissime e con la carrozzeria militare le parcheggia nel posto sbagliato, perché ha avuto (e ancora ha) problemi con droga e alcol, a quanto ci dice la polizia statunitense. E magari ci si dimentica dei suoi successi imprenditoriali – a dispetto di una famiglia che, rifiutandosi di aiutarlo economicamente,  lo “costringe” a fingere un sequestro – sempre fidandoci degli sbirri Usa – per tirar su 10.000 dollari -, ci si scorda di una mente brillante nonostante le cattive abitudini. E si fa finta di non ricordare che quella Ferrari Camouflage, dopo averla resa un ottimo veicolo pubblicitario per il suo Garage Italia, lui l’ha poi donata per un’asta di beneficienza. Perché le tante iniziative del biondo rampollo per il bene comune non trovano mai spazio nelle prime pagine e nelle homepage.
I suoi natali fortunati – e lo sono davvero – danno l’autorizzazione a troppi di ignorare che forse, dietro queste disavventure c’è un disagio enorme, una sorda disperazione di chi, forse, non è mai stato capito. Una compassione che siamo sempre pronti a provare per tutti, ma non per quelli come lui.

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Si intenda, Lapo Elkann ha sbagliato. E non è neanche la prima volta. Ma come spesso gli accade – a lui, come in passato successe a Diego Armando Maradona -, è solo lui a pagare. A farsi del male, nel corpo e nell’anima. Non parliamo di un Fabrizio Corona, per intenderci, che pure se attaccato ben oltre i propri demeriti, comunque ha danneggiato altri.

E quando Lapo fa cose buone – apre aziende, devolve bene in favore dei più sfortunati – ne hanno benefici in tanti, invece.

Non proviamo neanche lontanamente a immaginare cosa vuol dire nascere nella famiglia Agnelli, cosa vuol dire esserne la pecora nera. Cosa vuol dire non avere l’attenzione degli eredi giusti: anzi, pensando alla sua prima grande disavventura, quella con il trans Patrizia, si deve dire che non ricevette né l’attenzione né tantomeno la discrezione che ad altri della famiglia è stata concessa. Anzi, a sentir le malelingue piemontesi, allora si sospettò che quello fu un agguato (proprio come a Maradona successe a Buenos Aires, in cui giornalisti e curiosi furono debitamente e tempestivamente avvertiti dall’entourage del presidente Menem).

Non ho mai invidiato Lapo Elkann. Ho sempre visto nei suoi occhi la malinconia di chi non può né riesce a vivere una vita normale, di chi vorrebbe solo essere se stesso e giocarsi le proprie carte. Che ha attirato l’attenzione perché non gli bastavano i soldi, voleva qualcos’altro. E se devo vedere dove è cresciuto, lo invidio ancora meno. Ogni famiglia ha i propri problemi, ma pochi come gli Agnelli (ma anche i Kennedy, parliamo delle dinastie che riuniscono in sé un enorme patrimonio con uno smisurato potere) hanno emarginato i propri elementi meno etichettabili. C’è chi è finito in un manicomio, internato dai propri parenti stretti, chi sotto un cavalcavia, suicidatosi (o suicidato). Lo racconta meglio, in un tragico e sensibile affresco, quel bravo regista che è Giovanni Piperno nel documentario “Il pezzo mancante” in cui si racconta la vicenda del fratello di Gianni Agnelli, Giorgio, morto in una clinica nel 1965, o il figlio dell’Avvocato, Edoardo, che nel 2000 sulla Torino-Savona ha visto la fine della propria esistenza terrena. Entrambi incapaci di trovare nell’etica e nell’estetica delle iniziali (e l’orologio) sul polsino la propria felicità. Entrambi emarginati e abbandonati dai propri affetti, come è successo a Lapo. Perché i poliziotti glieli ha mandati la famiglia, in quell’appartamento.

E allora, Lapo, io vorrei abbracciarti. Vorrei starti vicino, perché l’impressione è che nessuno abbia saputo farlo, con te. Perché non riesco a godere delle tue sconfitte, solo perché hai più zeri (o forse no, a questo punto, se hai bisogno di inventarti un sequestro per 10.000 dollari) sul conto in banca e un’eredità notevole che ti aspetta. Non ci riesco, no, a fare l’italiano medio, di quelli che “sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti“. Quelli che magari ti sono stati attorno finché c’erano soldi, donne e buoni affari e che ora ridono di te e ti tirano fango addosso. Tra te e loro, che ti odiano solo per quello che rappresenti, con la meschinità di chi invidia, sempre e comunque. Perché “quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano, in costante escalation col vicino costruiscono. Parton dal pratino e vanno fino in cielo, han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo“. E ciononostante si sentono migliori di te.

Io no. Io ti auguro di fare la tua vita d’ora in poi. Di essere felice. Perché non ho un euro, ma evidentemente ho qualcosa che tu non hai. E mi dispiace. Perché, te lo dico onestamente, preferisco te a John, Andrea e compagnia cantante. Nel loro sguardo, io, non vedo nulla.

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