D’Alema, gli agnolotti e la staffellizzazione del giornalismo

24/10/2016 di Boris Sollazzo

A noi piace pensare a un D’Alema sordiano che guarda il piatto di pasta davanti a se ed esclama, prima di ribaltarlo “Agnolotto me fai schifo ma me te magno”. In fondo c’è da capirlo, sotto casa sua c’è Cacio e Pepe, ristorante che sui primi non teme paragoni.

Non è così, purtroppo, ci avrebbe regalato un sogno. Il buon Massimo che dovrebbe riflettere sull’opportunità di portare il proprio cane a fare i bisogni (dalle Iene in poi, tutti approfittano di questo dovere padronale per pedinarlo e molestarlo) e, soprattutto, fare la pace con la deriva del giornalismo nostrano, che si è chiambrettizzato e staffellizzato ormai definitivamente.

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Sì, ricordate Pierino la peste quando faceva Il Portalettere? Pedinava, inseguiva, derideva. Lo faceva con classe comica indubbia, e ci piaceva. Una novità sul piccolo schermo, una buona capacità di irridere il potere. Un uomo di spettacolo, poteva farlo. Poi arrivò Stefano Salvi, inviato del tg satirico italiano più conosciuto, che è entrato nel nostro immaginario per la rincorsa dietro il cappotto di Cuccia, dopo aver occupato il suo pianerottolo. E lì qualcosa è successo, grazie all’ambiguità dello status di cui gode Striscia la Notizia, un mostro bicefalo metà cialtronismo metà (presunto) giornalismo. Salvi ha aperto la porta, Staffelli l’ha sfondata continuando quel tipo di strategia persecutoria, peraltro abbassando il livello dei nemici. Da Mediobanca ai mediocri. Con tanto di tapiro d’oro a rendere tutto più squallido.

Da lì si è pensato che si potesse fare anche così questo lavoro: facendo diventare una notizia una non risposta, o uno sguardo truce, o un rifiuto a rispondere magari corredato da un passo affrettato o da un’entrata in macchina di tutta fretta. Corredato da un reporter microfono in pugno brandito come una clava e un’operatore che si muove il più possibile per pompare adrenalina nello spettatore. Un’aggressione in piena regola, una violazione della privacy, perché le regole della deontologia vanno a quel paese: non chiedi l’intervista, attendi la vittima sotto casa sua, magari – a causa del precariato e delle scarse occasioni di lavoro – ti vesti pure da chef mortificando la tua professionalità.

Di fronte a quest’aggressione, può succedere che chi educatamente sia pur con fare scostante – è pur sempre D’Alema, diamine – ti ha detto “lasciatemi stare, non voglio litigare” abbia poi una reazione violenta. Non verso persone, ma verso cose. E fa specie che in una delle rare volte in cui il politico in questione ha ragione, avrebbe chiesto scusa a Massimo Giletti con una telefonata. Il conduttore de L’Arena, che un tesserino l’ha conseguito e che questo lavoro l’ha fatto a lungo, avrebbe dovuto lui alzare la cornetta e scusarsi. A nome di una categoria che ormai ha dimenticato le regole base di un mestiere: o è megafono di uffici stampa, fonti illustri e veline della magistratura, oppure manipola, storpia nomi e usa telecamera e microfono come armi. Nel mezzo i tanti colleghi che fanno bene il loro lavoro e che, per questo, rimangono nell’ombra. Perché forse la responsabilità è anche nei lettori e spettatori, che amano questo gioco al massacro e non vogliono più essere informati, ma fomentati.

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