Implosione centrista, Renzi perde pezzi. Schifani strappa con Alfano. Giravolta Udc: no al referendum

19/07/2016 di Alberto Sofia

Altro che “fronda inesistente“, altro che partito e gruppi compatti. Quel che Angelino Alfano provava a nascondere, l’implosione del Nuovo centrodestra e dello stesso gruppo di Area popolare, prende forma tra Palazzo Madama e il Tempio di Adriano, tra dimissioni eccellenti e pezzi della galassia centrista in piena diaspora che si staccano dal renzismo. Ormai è un’erosione continua a destra del premier, tanto da trasformare in un’incognita pure la tenuta della maggioranza. E lanciare non poche ombre sul destino di quel referendum costituzionale che resta la madre delle battaglie renziane, al di là del cambio di toni del presidente del Consiglio.

 

SCHIFANI SI DIMETTE DA CAPOGRUPPO AP, UDC SUL FRONTE DEL NO AL REFERENDUM

I segnali, per Renzi, sono tutt’altro che positivi. Perché il sismografo di Palazzo Chigi registra in poche ore scosse pesanti. La prima, indigesta, con l’Udc che si iscrive nel fronte del “no” al referendum costituzionale, dopo aver votato le riforme in Aula. La seconda, con le nuove fibrillazioni interne al Nuovo centrodestra, ancora una polveriera al di là delle smentite di Alfano.

Tutt’altro che inaspettate, arrivano da Palazzo Madama le dimissioni di Renato Schifani dalla guida di Ap in Senato: «Non condivido il progetto centrista di Alfano, lascio il mio ruolo di capogruppo. Se lascio anche Ncd? Valuterò, di certo finché resto voterò come Ap», ha avvertito l’ex sodale del Cav. Chiaro, però, che Schifani guardi altrove, verso quella ricomposizione del centrodestra discussa pure ad Arcore, quando andò a trovare proprio il vecchio leader Berlusconi, in riabilitazione dopo l’operazione al cuore. Non è un mistero che, come Formigoni, Azzollini, Esposito e altri ribelli di Ndc, anche Schifani considerasse «chiuso il percorso di sostegno del Ncd al governo con il voto parlamentare sulle riforme». Quelle «votate per disciplina di partito», chiarisce adesso. E, di fatto, rinnegate. Non soltanto dall’ex capogruppo.  

Perché se Alfano nasconde le tensioni e insiste sull’idea del “quarto polo“, alle spalle del ministro (e di quelle di Renzi) tutto sembra sgretolarsi. Tradotto, la gamba di destra del governo cambia forma e perde pezzi. Un lento tracollo che ha spinto pure la fusione tra il progetto di Enrico Zanetti e le truppe di Denis Verdini, con tanto di strappo dentro Scelta Civica e la ricerca dei numeri per un gruppo parlamentare autonomo anche alla Camera. Ormai una priorità, per blindare la maggioranza dagli scossoni in casa alfaniana. E non solo. Perché non se Ncd implode, stessa sorte tocca anche all’Udc, l’altro pezzo di Area popolare.

 

GUARDA L’INTERVISTA A LORENZO CESA (UDC)

Al governo e in maggioranza tra i banchi parlamentari, ma appena  “iscritto” sul fronte del no al referendum sulle riforme. La giravolta in salsa democristiana va in scena al Tempio di Adriano, a pochi passi da Montecitorio: «Siamo per il no, lanceremo i comitati in tutta Italia. Non per mandare a casa qualcuno, ma perché è una riforma confusa e pasticciata», è l’annuncio del segretario Lorenzo Cesa. Peccato che il disegno di legge Boschi sia stato approvato anche con i voti del partito di Cesa. Pochi, certo, di fronte a una componente parlamentare – dentro Ap – che non raggiunge nemmeno quota dieci. E nella quale, almeno al Senato, «gli elettidi fatto, non indossano più quella maglia», mormorano in sala. Ma quella dell’Udc resta pur sempre un’inversione di rotta totale. Tutt’altro che condivisa al proprio interno.

UDC, ALTRA FAIDA E ALTRA IMPLOSIONE

Certo, perché quella dell’Udc è la storia di un’altra faida totale, di un altro partito deflagrato sempre nel nome del renzismo. Da una parte il segretario Cesa, schierato sul no al referendum. Dall’altra il presidente e deputato Gianpiero D’Alia, che sosterrà il sì. Stessa posizione del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. E soprattutto di Pierferdinando Casini. Lo storico leader dei centristi che già aveva preso le distanze da Cesa e dai vertici di quel partito, l’Udc, che aveva fondato. Tanto da non aver nemmeno rinnovato la tessera. L’antipasto di un divorzio ora certificato pure dal segretario: «Casini? Dovremo abituarci di più alla democrazia interna di un partito, se c’è una Direzione che decide, se c’è una base che è per andare alla creazione dei Comitati per il ‘no’, bisognerebbe tenerne conto. Se poi qualcuno vuole restare attaccato alla poltroncina lo faccia pure, ma noi facciamo politica», è stato l’affondo lanciato contro il presidente della Commissione Esteri al Senato.

L’ennesimo sintomo di un centro, ormai scisso oltre l’atomo, in totale riorganizzazione. E del lento, ma continuo, smembramento di quella galassia post-democristiana, e in parte post-berlusconiana, che aveva abbracciato il premier. Ne blindava la maggioranza, ora teme di restare fuori dal Palazzo. E di venire trascinata in un caso di sconfitta al referendum. Per questo ne prende le distanze. Con un chiaro avvertimento: se l’Italicum non cambia, l’erosione non potrà che continuare.

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