Erasmo de Angelis, Virginia Raggi e la divertente scusa del giornalismo 2.0

E alla fine la verità è spuntata: non era Virginia Raggi quella nel video di “Meno male che Silvio c’è” pubblicato da L’Unità nei giorni scorsi. Era una ragazza a caso, “colpevole” di somigliare un po’ troppo alla candidata 5 stelle per la poltrona di sindaco di Roma. Un caso scoppiato dopo che l’Unità aveva deciso di pubblicare il video chiedendosi: “Quella ragazza è Virginia Raggi?”

IL GIORNALISMO 2.0

Sul Corriere, che intervista il direttore de L’Unità Erasmo D’Angelis, apprendiamo che pubblicare un video non verificato, sulla base di una somiglianza nemmeno troppo marcata, sarebbe giornalismo. 2.0 per giunta. Dice D’Angelis

Non avete pensato ad una rettifica quando la Raggi vi ha smentito?

«No, perché non è un’operazione politica, ma è giornalismo 2.0».
Vuol dire che non si fanno più verifiche?
«Voglio dire che la comunicazione social punta molto sulla quantità e sulla velocità. Sono sicuro che anche il Corriere.it avrebbe caricato il video».

In queste affermazioni ci sono cose vere e cose false, e vediamo quali sono. Sì, è vero che oggi la comunicazione social – che non è giornalismo – punta molto sulla quantità e sulla velocità. E infatti la differenza fra un sito di bufale e un giornale, è in quella qualità che D’Angelis non menziona. Perché se è vero che Internet è il “non luogo” della velocità, è anche vero che in questo non luogo la responsabilità del giornalista è maggiore: è quella di verificare velocemente con i mezzi che lo stesso internet offre, per offrire comunque al suo lettore un servizio in più, rispetto al corrieredellapera.

Il giornalismo 2.0 è quello che dice D’Angelis? No. Non deve. E comunque non è quello che intendiamo noi qui a Giornalettismo. E dire che Il giornalismo 2.0 è fare le cose un po’ così come vengono, è offensivo nei confronti dei tanti che si affannano e sudano ogni giorno per mettere online siti sempre più credibili giorno dopo giorno. Forse possiamo discutere se il giornalismo 2.0 esista o meno, probabilmente non ancora del tutto, e quel che De Angelis definisce come tale è solo la prima fase dell’adattamento del giornalismo al web. Una fase tragicamente sbagliata. Una fase figlia dell’apertura del mercato a qualsiasi operatore sappia aggiornare uno spazio web, all’insegna delle pagine viste, alla ricerca del numero. Una fase desinata a concludersi con l’implosione del concetto stesso di informazione sul web, soffocata da quelle bufale che ormai sono più numerose delle notizie vere, e che nella loro essenza diventano notizia.

E dopo questa fase tornerà la necessità del vero giornalista, che rimane lo stesso mezzo dopo mezzo, dalla radio al web. Cioè di colui che non si limita a fare da cassa di risonanza a ciò che altri dicono, ma lo verifica come può. Con i mezzi che ha. Mostrando ai suoi lettori come ha fatto. Costruendo una comunità di persone informate, non di tifosi. Andando oltre questi tempi oscuri fatti di meme e falsità, per tornare a essere elemento centrale della cultura. Personaggio e mestiere utile a comprendere la complessità del mondo, non cocchiere che pretende di dirti ciò che devi credere. E questo era un errore anche dei giornalisti 1.0, per dire.

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