L’Egitto ha spiato gli inviati italiani che indagavano su Giulio Regeni

10/04/2016 di Redazione

Sarà difficile dare pace e giustizia alla memoria di Giulio Regeni: l’Italia, sì, ha richiamato il suo ambasciatore al Cairo ed è pronta a “nuove azioni”. Ma se la situazione in Egitto è quella che racconta Repubblica in edicola oggi, certo c’è ben poco da sperare: il team di investigatori italiani inviati al Cairo per indagare sulla morte di Giulio Regeni è stato intralciato in ogni modo. Le fonti a cui gli 007 italiani provavano ad avere accesso sono state manipolate, interrogate più volte, reinterrogate ed intimidite da investigatori egiziani. Il tutto, chiaramente, sempre per amore di trasparenza.

L’EGITTO HA SPIATO GLI INVIATI ITALIANI CHE INDAGAVANO SU GIULIO REGENI

Carlo Bonini e Giuliano Foschini raccontano su Repubblica ciò di cui hanno avuto “esperienza diretta”. Il 5 febbraio gli ispettori italiani arrivano al Cairo e ottengono, formalmente, l’aiuto delle forze dell’ordine egiziane. Quel che accade è esattamente l’opposto di una leale collaborazione fra persone.

L’indagine, in quel momento, è alle sue primissime battute e la retorica della “cooperazione” con gli organi di polizia egiziana è al suo acme. Ci si illude che, pur nel rispetto di un accordo politico bilaterale e del diritto internazionale che impediscono al nostro team di svolgere qualsiasi attività autonoma di indagine al Cairo, ai sei uomini di Sco e Ros sia quantomeno lasciato un margine per poter informalmente coltivare colloqui con fonti o testimoni in grado di orientare la ricerca della verità che, si dice allora come oggi, «è un comune obiettivo dei due Paesi . È, appunto, un’illusione. Il nostro team — come, a marzo, riferirà a Repubblica una qualificata fonte investigativa — individua e raggiunge telefonicamente una persona ritenuta di un qualche interesse per le indagini. Ha un’utenza cellulare egiziana e si dice disponibile a un incontro. Che non ci sarà. Dopo qualche ora dal contatto telefonico con il nostro team investigativo quella stessa persona viene convocata d’urgenza in una caserma della polizia egiziana, dove viene interrogata e le viene chiesto conto di cosa diavolo sappia e, soprattutto, di cosa diavolo vogliano sapere da lei quei ficcanaso di italiani. È un segnale chiaro come il sole. E l’incipit truce di una cooperazione che non comincia né in quei primi giorni di febbraio, né tanto meno nelle settimane che seguono.

Gli investigatori italiani, scrive Repubblica, messi sotto pressione dalla cosiddetta “collaborazione” che gli investigatori egiziani promettevano di garantire, rimangono per così dire “agli arresti domiciliari” nella palazzina liberty dell’ambasciata italiana al Cairo, che diventa una sorta di fortezza assediata.

 

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I protocolli comunicativi vengono interrotti e riconfigurati, il livello di sicurezza viene aumentato.

 A Roma si prendono delle contromisure. Mentre Palazzo Chigi scommette sulla possibilità che il Regime si convinca dell’opportunità di consegnare la “verità”, i nostri apparati investigativi sono costretti a definire routine operative rigidissime, da guerra di spie. Al team al Cairo viene vietato di utilizzare le mail, di agganciarsi a qualunque sorgente Wi-fi, in luoghi privati o aperti al pubblico, nonché il servizio di messaggistica tradizionale da smartphone e l’applicazione WhatsApp ( in quel momento ancora priva di crittografia automatica dei testi ). Le comunicazioni con Roma viaggiano solo attraverso “Signal”, l’applicazione correntemente utilizzata in Egitto per evitare di essere intercettati. È interrotta, come misura precauzionale, ogni eventuale comunicazione diretta tra il team e la Procura della Repubblica di Roma, che, non a caso, incontrerà e avrà modo di confrontarsi con i sei uomini del Cairo solo al momento del loro ritorno a Roma. Per le chiamate in voce vengono esclusi i cellulari e consentite solo quelle attraverso alcune linee fisse dell’Ambasciata

 

Il resto è uno scenario degno di una spy story, di un thriller ad alto rendimento.

Sulla riva destra del Nilo, il villino liberty voluto da Vittorio Emanuele Ill nel 1927, che ospita gli uffici della nostra rappresentanza diplomatica ed è residenza del nostro ambasciatore Maurizio Massai-, è, nei fatti, diviso da una linea immaginaria che sconsiglia conversazioni sul lato est dell’edificio. Quello contiguo ai palazzi del quartiere, e in particolare da un appartamento che, in linea d’aria dista meno di un centinaio di metri, dunque nel raggio di microfoni direzionali, le cui luci sono costantemente e singolarmente spente ogni volta che cala il sole e le tende tirate ogni volta che si alza. Su quel lato est della nostra ambasciata, se proprio si deve parlare, è meglio raccontarsi banalità. Altrimenti, dopo aver lasciato i cellulari a una qualche distanza, si trasloca sul lato Ovest. Quello che affaccia sul lungo Nilo e la strada a scorrimento veloce che lo percorre, il cui rumore di traffico perenne è in grado di impastare e rendere meno decifrabili all’ascolto abusivo le conversazioni

 

Per spostarsi la nostra diplomazia limita i suoi spostamenti “all’essenziale”, si muove “a piedi o in macchina” e risulta costantemente “monitorata” dalla polizia egiziana che, dice Bonini su Repubblica, nemmeno ha voglia di nascondersi particolarmente mentre tiene sotto controllo gli agenti di un paese sovrano.

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