Veloce come il vento, con il Rush italiano e Accorsi cattivo maestro il cinema italiano mette la freccia – RECENSIONE

VELOCE COME IL VENTO, ALTRO CHE RUSH –

Ci voleva una nuova generazione di cattivi ragazzi per ricordare al cinema italiano che il genere può essere la nostra salvezza (e già lo è stato, per decenni). E così dopo Gabriele Mainetti e Lo chiamavano Jeeg Robot, ecco Veloce come il vento, il film di sentimenti e motori, gioie e dolori, di Matteo Rovere. I due hanno diversi punti in comune: sono anche produttori, sono cresciuti con un cinema americano che conoscono, amano ma non scimmiottano, si sono fatti le ossa con cortometraggi di altissimo livello, sanno muovere la macchina da presa come pochi e amano gli attori, non avendo mai paura di tirarli fuori dalle etichette che gli han messo addosso. Guardate come hanno (mal)trattato Claudio Santamaria e Stefano Accorsi, costringendoli a diete, all’ingrasso o al limite dell’anoressia, per dar loro performance che ricorderemo a lungo.

Hanno lo stesso, bravissimo direttore della fotografia, Michele D’Attanasio (è nata una stella, ma ha 39 anni: quanto tempo ci vorrà perché tutti se ne accorgano nella gerontocrazia tricolore?).
E non hanno paura, anzi hanno una voglia matta, di raccontare storie per il pubblico. Non per assecondarlo, ma per spiazzarlo e conquistarlo.

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VELOCE COME IL VENTO, LA TRAMA –

Matteo Rovere incontra un vecchio meccanico, qualche anno fa. E’ Tonino Dentini: lui le macchine le ha messe in pista, riconosceva lo stato di un motore dal suono, dal respiro, dai battiti (e a lui, l’autore, dedica il film). E quella vita, oltre il carburatore, ha saputo comunicarla a un regista, che si è appassionato in particolare alla storia del mitico Carlo Capone, pilota di rally che divenne leggenda perché solo la sua lingua era più veloce del suo bolide. E quel caratteraccio, nonostante fosse forse il talento più brillante della sua generazione, gli costò troppo. Forse tutto. Perdenti, vecchi saggi, un bad boy che potrebbe riscattarsi come (cattivo) maestro. Aggiungi una donna pilota a spiazzare tutti – di solito tengono gli ombrelli, sulle piste, mentre Matilda De Angelis (le macchine, con i loro drammi, li aveva scritti nel cognome: ricordate il talentuoso e sfortunatissimo Elio De Angelis, scomparso 30 anni fa), l’asfalto se lo mangia – e hai una storia che morde l’acceleratore, ti tiene aggrappato al volante, che non ha paura di ricordarti le sgommate della vita, le sue frenate, i sorpassi fatti e soprattutto subiti quando hai un solo risultato, tagliare il traguardo per primo. E’ una storia di sport, di quelle vere, di quelle che sono base e metafora potentissima della vita. E’ una storia di sudore e rabbia, di amore e vite fuori giri. Salite in macchina, ne vale la pena. Il semaforo verde scatterà il 7 aprile, quando il film uscirà dai box e andrà in sala.

VELOCE COME IL VENTO, IL CAST –

Matteo Rovere con Un gioco da ragazze ci aveva mostrato una grande abilità nel girare, ma era stato penalizzato da una sceneggiatura mediocre. Gli sfiorati, semplicemente, non era stato capito, forse anche per un argomento respingente per il pubblico bacchettone italico. Ora trova un equilibrio perfetto: la macchina da presa si sfoga in una delle prove più difficili per un regista, ovvero nell’inseguimento, anzi nell’anticipo delle macchine in corsa, la scrittura, grazie a Filippo Gravino e Francesca Manieri, è ben disegnata e allo stesso tempo tagliata come si deve, come una curva del Ballerino. Chi è il Ballerino? E’ Loris De Martino, ex pilota e tossicodipendente. Uno Stefano Accorsi con 11 chili in meno, parecchi centimetri di capelli in più, volto emaciato – si è svegliato, durante il set, alle tre per avere quella faccia, al di là di ogni trucco – e denti gialli. Uno sforzo fisico notevole, ma soprattutto una prova attoriale clamorosa. Cattivo maestro, Loris, di quelli che non hanno morali e moralismi che li aspettano per redimerli, uno che corre incontro all’autodistruzione con la stessa velocità e incoscienza che ci metteva in pista, quando gli avevano affibbiato quel soprannome perché come danzava lui sulle quattro ruote, nessuno. Non strappava, Loris (proprio come Capone, a cui è ispirato), il suo sembrava un movimento armonico e continuo, le sue traiettorie erano irripetibili per chiunque altro, qualunque fosse la macchina. Accorsi ci mette proprio questo dentro il personaggio, cialtronaggine e sensibilità, follia e maturità, quella cifra pop che ce l’ha fatto entrare nell’immaginario unita a una gamma espressiva e recitativa che gli consegna la miglior prova della carriera, sono un tutt’uno. E bravissima è anche l’esordiente Matilda De Angelis: ne sentiremo parlare, quarantonove chili di rabbia, carisma e dolcezza ruvida, in un ruolo che un’attrice italiana di solito si sogna (anzi, visti i nostri registi e sceneggiatori, probabilmente non osano neanche farlo) e che è credibile nel ruolo di una diciassettenne che rimane sola al comando. Della sua famiglia, della sua scuderia, di se stessa. E si concede, lei che nasce come cantante, anche una grande prova con Seventeen, incisa per il film. E ancora, da Graziosi a Gioielli, compreso il piccolo Pugnaghi, le caratterizzazioni secondarie sono pennellate decisive: sui loro visi, nelle loro performance, si appoggiano quelle piccole svolte della storia che risultano decisive.

VELOCE COME IL VENTO, LA RECENSIONE –

Rovere non sbaglia una sequenza, ci offre un’opera che piacerebbe a Steve McQueen, calibra emotività, toni drammatici e quasi comici (Accorsi ne offre un paio niente male), e ritmo scalando le marce al momento giusto, non ha paura di pigiare l’acceleratore e di ritardare la frenata, di anticipare la curva e di non prendere mai scorciatoie (i successi di Giulia, vissuti con un crescendo essenziale e velocissimo, sono un bel rischio per chi in quel momento poteva concedersi un attimo di respiro, facile facile e a portata di mano), ma seguire sempre la traiettoria più giusta, anche sporcandola salendo su un cordolo, quando necessario. A volte tenta il sorpasso azzardato e gli riesce, altre volte aspetta (come all’Italian Race) e non fa mai la scelta più facile. D’Attanasio alla fotografia non sbaglia una luce, un fotogramma, come un bravo meccanico che setta il veicolo alla perfezione, e così fa Gianni Vezzosi al montaggio, che dà la giusta aerodinamica a un lungometraggio veloce come il vento, nonostante le sue due ore di durata.

Veloce come il vento ci conferma che c’è una nuova generazione di ottimi cineasti che possono rivoluzionare il nostro cinema, rendendolo accattivante e salendo di livello, tecnico e artistico. Il futuro non è il cinema autoriale e autoreferenziale, ma l’autore che si sporca le mani con il cinema di genere, che si confronta con il pubblico e lo attacca alla poltrona senza trucchi, senza modificare il motore di una macchina cinema che ha tanti cavalli quasi mai utilizzati da piloti che preferiscono arrotondare le curve per rimanere sul sicuro. Mainetti e Rovere (ma anche Sollima, che forse ha aperto questa nouvelle vague bella sporca e cattiva) ci dicono che certi film un tempo, per definizione, fuori dalla nostra portata – “te pare che se ponno fà da noi un firm de supereroi o de machine” mi diceva un attrezzista a Cinecittà, qualche anno fa -, non solo li sappiamo fare. Ma sappiamo farli meglio. Perché questo non è un Rush all’italiana (semmai è più un mix tra Rocky e Toro scatenato, perché Accorsi è un pugile suonato dalla droga e dalla vita, e ce lo dimostra nella scena del funerale del padre, magnifica).

Veloce come il vento è meglio di Rush. Anche se l’idea non è di Stefano Accorsi.

(Photocredit Facebook Veloce come il vento e foto di scena di Andrea Pirrello)

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