Fayçal Cheffou, l’uomo col cappello: la nostra sconfitta (e paura) più grande

27/03/2011 di Boris Sollazzo

Fayçal Cheffou, chi è il nostro incubo peggiore –

No, questa volta non possiamo nasconderci. Non possiamo incolpare una cultura, una civiltà, una religione, un disegno di distruzione folle e feroce. No, con Fayçal Cheffou, il giornalista precario e indipendente che risulta essere l’uomo col cappello, non è solo l’Isis di turno a doverci preoccupare.

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Perché quel ragazzo, è un fallimento tutto nostro. Non è il Mohamed Atta colto, intelligentissimo e però fin troppo radicato in una cultura rigida e fatta di logiche di contrapposizione molto pesanti. Atta, leader degli attacchi dell’11 settembre, aveva usato l’Occidente, anche nella sua vita “onesta”. No, lui ha giocato secondo le nostre regole. Lui ha creduto in noi. Lui ha provato a incanalare la sua rabbia dentro strumenti democratici, seguendo i valori che noi consideriamo alla base della nostra società, come la libertà d’espressione.

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Guardate il suo video del 15 luglio 2014. Un reportage-editoriale in piena notte, di ottima qualità, un discorso essenziale e puntuale, un richiamo ai nostri valori. Caduto nel vuoto. Perché, come dice lui stesso, nessuno è là con lui, “né i politici che ci hanno riempito di promesse, né altri giornalisti, sono solo”.  Già, lo abbiamo lasciato solo. A combattere una battaglia che doveva essere anche nostra. Anzi, soprattutto nostra.

Lui non è come gli altri kamikaze (e infatti non si fa saltare). Non è come Ibrahim e Khalid El Bakraoui o Said e Cherif Kouachi, che già nella biografia e nella collocazione sociale, erano instradati verso quell’odio cieco, obbediente, suicida. La loro vita, il luogo in cui vivevano, la fedina penale, l’emarginazione che avevano non solo subito, ma sempre cercato con ostinazione, rifiutando ogni strada consona alla convivenza civile, diventando prima piccoli criminali e poi martiri, in fondo ci faceva sentire assolti. Stupidamente, perché se sono arrivati fin lì, a fare di Zaventem una macelleria umana, con bombe piene di chiodi, o a fare una strage nella redazione di Charlie Hebdo, la colpa è anche nostra. Del fallimento di un’integrazione solo vantata ma mai realizzata (e Mathieu Kassovitz, con il film L’odio, ce lo disse più di vent’anni fa), dell’incapacità di far sentire a casa anche chi, sul passaporto, ha la nostra stessa cittadinanza.

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Fayçal, però, è un salto in avanti della jihad globale, quella che ha ormai colpito venti paesi con 75 attacchi e 1.280 vittime, come ci ricorda l’analista Ian Bremmer. Lui, quella notte d’estate, era lì davanti al centro 127 bis del Belgio per migranti clandestini “colpevoli solo di non avere documenti” per difenderne i diritti umani.
Erano musulmani, nel pieno del Ramadan, che urlavano e si lamentavano, perché quel centro di detenzione li obbligava a mangiare a orari incompatibili con i loro usi religiosi, costringendoli di fatto al digiuno. Un tipico esempio di arrogante prevaricazione occidentale, di un’inutile approccio muscolare alla diversità.
Ad ascoltare quelle urla, solo lui e il suo operatore. Due anni dopo, l’uomo che indignato e deciso difendeva quei migranti clandestini, i diritti di centinaia di persone all’integrità fisica, morale e spirituale, ha contribuito a un attentato vile, sanguinoso, devastante. L’uomo che ascoltava e accoglieva quelle urla, non ha esitato a provocarne di più strazianti. L’uomo che credeva così tanto nei nostri valori da usarne uno – la libertà d’espressione, come giornalista – per sensibilizzare tutti noi su un abuso ai danni di una minoranza, convinto che potesse cambiare qualcosa, ora li ha rifiutatu tutti e deponendo un ordigno letale in un aeroporto, accompagnando due compagni kamikaze, ha provocato decine di morti. E ci ha comunicato che nel nostro mondo, secondo lui, per cambiare le cose è utile ed efficace solo la violenza. Cieca, feroce, selvaggia.

Perché? Su questo dovremo interrogarci a lungo. Qui la mancata integrazione non c’entra. Non è solo colpa di una società capitalista che stratifica classi ed etnie. E neanche di un’altra comunità che si sta sempre più “medievalizzando” e rifiuta ogni contaminazione. No, Fayçal, ci piaccia o no, è uno di noi. Fayçal giocava secondo le nostre regole e ci credeva. Fayçal è il sintomo di una capacità del fanatismo islamico (e non solo) di far crescere la sua pianta malata anche in menti non fertili per i suoi semi, è il sintomo di un salto di qualità del terrorismo e della jihad. Ed è segno che la malattia della civiltà europea e statunitense è sempre più estesa. Che le metastasi di una società sempre meno inclusiva e drogata di profitti e sperequazioni, disuguaglianze e pregiudizi, sta allontanando anche fette di quell’Islam moderato che ha creduto in un cammino comune. E Fayçal ci dice che il problema non è solo di religione, civiltà, integrazione. Di lotta di classe. No, c’è anche, probabilmente, un dramma generazionale alla base, perché il vuoto che accoglie le nuove generazioni in questi anni lascia spazio all’odio, alla follia, alla rivendicazione insana. Alla precarietà, alla morte degli ideali, al fatto che ovunque chi ha più di 20 anni ora sta peggio delle generazioni dei propri padri, ormai si risponde anche così. Perché i loro padri subivano l’emarginazione convinti che tutto sarebbe migliorato. I figli, adesso, sanno che era solo un sogno spezzato, una promessa non mantenuta. Che il mondo, per loro, sarà peggiore. E per chi già viveva all’inferno, non è una bella notizia.

Fayçal ci inchioda alle nostre responsabilità. Non possiamo far finta di nulla. E soprattutto Fayçal ci fa paura. Perché il terrorismo ora non solo ha colpito, colpisce e colpirà dove meno ce l’aspettiamo. Ma anche con chi meno immagineremmo. 

 

 

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