La storia del giudice che rinvia una causa civile al 2019: «Troppo lavoro, la schiavitù è proibita»

04/01/2016 di Redazione

Una questione di priorità, calendario delle udienze alla mano. E di diritti rivendicati. Era il settembre 2014 quando è iniziata una causa da 200mila euro tra due società. Per conoscere l’esito servirà però attendere, almeno fino al 19 gennaio del 2019. Lo ha raccontato il Corriere della Sera, con un articolo di Luigi Ferrarella, spiegando come il giudice Alberto Munno, un magistrato della II sezione del Tribunale civile di Taranto, lo scorso 21 dicembre abbia rinviato l’udienza di ben tre anni. Il motivo? «Scrivo già 160 verdetti all’anno e la Convenzione dei diritti dell’uomo vieta schiavitù e lavoro forzato», ha spiegato con tanto di provocazione.

LA STORIA DELLA CAUSA E DELL’UDIENZA RINVIATA AL 2019

Il giudice ha precisato di «viaggiare già al ritmo di circa 160 sentenze l’anno» e come «nel triennio il futuro massimo di capacità lavorativa esigibile è già prenotato e esaurito da 500 altre cause più vecchie di questa». Tradotto, il giudice non è disposto a ulteriori “sacrifici”. Si legge:

In tre pagine di ordinanza – nelle quali si coglie anche un riflesso di «giurisprudenza difensiva» rispetto a rischi (disciplinari, erariali e di responsabilità civile) dello sforare la legge Pinto che risarcisce chi non abbia una sentenza di primo grado entro 3 anni – il giudice premette che già all’inizio di questa causa il 26 settembre 2014 si ritrovava sul ruolo un imbuto di «500 cause più vetuste» che dovevano «trovare prioritaria definizione negli anni 2015, 2016 e 2017 e 2018»: sicché a questo scopo, dopo 165 udienze di precisazione delle conclusioni e decisione delle cause nel 2015, ne risultano «fissate 160 per il 2016» e già «114 per il 2017, 60 per il 2018 e 28 per il 2019», alle quali «dovranno aggiungersi» non soltanto «le udienze nei procedimenti collegiali», ma anche «le ulteriori udienze di precisazione delle conclusioni e decisione delle cause» più vecchie, «la cui fase di istruzione è prossima a concludersi e che dovranno essere definiti con priorità rispetto» a questo fascicolo nato nel 2014.

 

Si tratta di numeri di produttività elevata, precisa il quotidiano, anche superiori alla media nazionale dei giudici civili (120-140 sentenze annuali, ndr). Ma non bastano, considerate le pendenze e gli arretrati.

Anche conteggiando il sabato, «che non è considerato lavorativo in numerose amministrazioni statali anche di livello apicale», in un anno lavorativo fatto di 270 giorni «il giudice civile può dedicare non più di 140 giorni allo studio dei processi e alla redazione delle sentenze e delle ordinanze monocratiche e collegiali, previo studio delle questioni giurisprudenziali», perché gli altri 130 restano assorbiti dalla «celebrazione delle udienze tabellari monocratiche e collegiali, e dalle ulteriori attività di ufficio». Senza dimenticare che «l’impossibilità giuridica di definire i giudizi in tempi più brevi è determinata dalle decisioni che vogliono l’erogazione del servizio demandata ad un numero di unità operative inferiore a quello necessario»: riferimento alle diffuse carenze di cancellieri e alle disparità di magistrati per sedi in rapporto ai flussi di sopravvenienze», si legge ancora.

CAUSA CIVILE RINVIATA AL 2019, LE MOTIVAZIONI DEL GIUDICE

Restano la notte e i festivi, ma il giudice ha rivendicato come «la protrazione sine die dell’impegno lavorativo comporterebbe un’inammissibile compressione dei diritti inviolabili della persona umana del magistrato impiegato, essendo la durata massima della giornata lavorativa preordinata alla tutela dei diritti di cui all’art. 2 della Costituzione».

E qui al giudice forse scappa un po’ la frizione laddove prospetta che «la prestazione lavorativa senza limite di durata incontra il divieto di cui all’art.4 della “Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”, la quale, sotto la rubrica “divieto di schiavitù e del lavoro forzato”, dispone al comma 2 che “non è considerato come lavoro forzato ogni lavoro che fa parte delle normali obbligazioni civili”»: e ad avviso del giudice «non può considerarsi “normale obbligazione civile” la prestazione lavorativa la cui durata sia sottratta a limiti predeterminati e certi, e sottoposta agli arbitri degli utenti del servizio». Argomentazione ardita a parte, che il tema sia assai sentito lo dimostra il referendum che l’Associazione nazionale magistrati, su richiesta della corrente di Magistratura indipendente, ha indetto per il 17-18-19 gennaio sul chiedere o no al Csm di introdurre «carichi esigibili», cioè «una misura in cifra secca (come per i magistrati amministrativi) del lavoro sostenibile dal magistrato in funzione degli obiettivi di adeguata quantità e qualità del lavoro».

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