“Ci sarà petrolio per altri 70 anni”

Secondo nuovi calcoli il greggio non sta affatto finendo: quali costi, però, per la sua estrazione?

Il petrolio doveva finire tempo fa, ma non è finito: tutte le previsioni negativo-catastrofiche sulla fine del mondo governato dal greggio sono state, per ora, marginalizzate. Come è possibile? La teoria del picco del petrolio teorizzata da M. King Hubbert nel 1956, basata su solidi calcoli matematici, doveva essere blindata, e condurre alla necessaria conclusione: nel 1970, le risorse energetiche petrolifere dovevano raggiungere il loro picco, e, da quel momento iniziare un lento ed inesorabile declino, che avrebbe cambiato il mondo per come lo conosciamo. Anche grazie alle ricerche della “popstar dei geologi”, chiamato così per l’impatto che le sue ricerche ebbero, il movimento ambientalista e per la decrescita mosse i suoi primi passi. Eppure, nuovi calcoli ora correggono le fondamenta stesse del suo pensiero.

PETROLIO PER TUTTI – E’ un pezzo di Bloomberg, uscito ieri, a far rumore. Perché si racconta che il servizio geologico americano stima che più di 2mila miliardi di barili di greggio mai toccato siano ancora sigillati nel terreno, sufficienti per più di 70 anni a regimi di utilizzo attuali. Gli avanzamenti tecnologici permettono di localizzare, trivellare e frantumare le rocce sotterranee con precisione mai sognata decenni orsono. Miliardi di barili in precedenza pensati come irragiungibili o inesistenti sono stati identificati, mappati e in molti casi comprati e venduti negli ultimi 5 anni, dalle steppe dell’Alberta del nord, alle valli delle aride montagne della Patagonia, fino alla Rift Valley africana. Il senso della notizia è tutto qui: nuovi avanzamenti tecnologici rendono raggiungibile petrolio localizzato in zone prima nemmeno pensabili, e allungano lo spazio concesso dalla curva di Hubbert, secondo i calcoli del servizio geologico degli Usa, di almeno altri 70 anni, contro tutte le previsioni nefaste. Le notizie dalle grandi società scientifiche ed industriali che si occupano di petrolio, scrive Bloomberg, sono ottime – il che è dire poco.

NUOVE TECNOLOGIE – “Che cosa è cambiato? Gli ingegneri del Brasile, della Petrobras, hanno capito come scavare buchi nella montagne di sale nel il fondale oceanico che nascondono grandi riserve di greggio. Nel golfo del Messico, ispettori della Chevron e della Shell hanno fatto cose simili per centinaia di migliaia di miglia al largo della costa, più lontano e in acque più profonde di quello che chiunque poteva sognare solo pochi anni prima. Trivellazioni in acque ultra-profonde che costano circa 750 milioni di dollari e possono rimanere in mare per mesi hanno permesso agli esploratori di immergersi per chilometri nella crosta terrestre per trovare qualcosa di più”; ancora: “i tecnici della Kosmos Energy hanno calcolato che dato che la costa sudamericana e quella africana erano unite, la costa atlantica dell’Africa probabilmente contiene depositi di petrolio simili a quelle del Brasile”. Allo stesso tempo “un petroliere texano chiamato George Mitchell sta perfezionando una tecnica di studio che ha richiesto 40 anni nota come fratturazione idraulica che potrebbe generare un vero e proprio rinascimento nell’industria petrolifera e del gas americana”.

OSCILLAZIONI – Grazie a queste nuove scoperte tecnologiche, scrive Bloomberg, il prezzo dell’estrazione risulta praticamente indipendente da quello di vendita: “I prezzi del petrolio sono scesi la scorsa settimana”, ma poco dopo sono risaliti “del 7%” per colpa della crisi diplomatica nei confronti dell’Iran. Anche se il greggio, continua Bloomberg, è calato del 50% dal 2008, “i produttori hanno degli incentivi fantastici per continuare a cercare nelle riserve presso il North Dakota e nelle acque profonde del Golfo del Messico. Estrarre qui costa dai 50 ai 60 dollari al barile, dice Guy Caruso”, esperto del Center for Strategic International Studies. Le domande, continua e conclude Bloomberg, non sono certo finite, in ogni caso: “Mentre il dibattito sul Picco dell’Olio si arresta, il petrolio rimarrà un oggetto di discussione passionale e logica per ragioni che hanno poco a che fare con la produzione e molto con la geopolitica e la geofisica: come faranno gli Stati Uniti a contare meno sulle nazioni poco amiche che producono greggio? Quanto petrolio possiamo recuperare mentre sempre più automobili vanno a gas o ad elettricità? Come possiamo riconciliare la combustione fossile con i rischi del cambiamento climatico?”. Domande interessanti, importanti e decisive.

EROEI – La previsione di Hubbert, fa notare Bloomberg, si mantiene “corretta”: in effetti, a tecnologie vigenti nel 1956, il picco del petrolio estraibile non poteva andare oltre il 1970; tuttavia, sembra che innovazioni tecnologiche impensate abbiano fatto volare in avanti il termine ultimo per l’esaurimento del greggio utilizzabile dall’uomo, donando respiro e prospettive ad un’industria che, in massima parte, conta ancora moltissimo sull’oro nero: per la sua facilità di trattamento, per la sua versatilità e per le possibilità, praticamente infinite, di utilizzo industriale e civile. La nostra è una società ormai irrimediabilmente petrolio-dipendente, e il sapere per quanto ancora possiamo contare sull’oro nero è un’informazione per lungo tempo ritenuta importanza incredibile: secondo Bloomberg, però, la questione ha perso di importanza. “Quando è stato – o quando sarà – il picco del petrolio? Non è più la domanda giusta. Le trivellazioni ad alta profondità, le estrazioni dalle sabbie bituminose e i gas dagli scisti bituminosi hanno esteso le riserve di idrocarburi. La domanda è: quale è la via più utile per utilizzarli?” In realtà, esiste una domanda precedente, di importanza equivalente se non addirittura maggiore: quanto costa, e quanto rende, l’approccio a queste nuove varietà di giacimenti? Le scoperte che hanno allungato la durata della vita del petrolio nel nostro pianeta, reggono al test dell’EROEI, il noto indice di saldo energetico (Energy Return On Energy Invested)? Secondo gli esperti che studiano il picco del petrolio, la risposta sarebbe no.

CONVIENE? – Prendiamo, ad esempio, il caso delle tar sands, le sabbie bituminose dell’America del Nord. Un paper pubblicato su Sustainability , magazine peer-reviewed ed elaborato da due scienziati dell’Università dello stato di New York nel 2010 riassume le principali analisi e valutazioni sui costi di produzione delle energie petrolifere da giacimenti alternativi.” Gli autori”, si legge, calcolano per le tar sands ” un EROEI di 6 a 1, basato principalmente sul costo diretto della produzione energetica. Includendo input indiretti ha ridotto l’EROEI fino a 5:1, e includendo gli equivalenti energetici si hanno effetti solamente marginali. Studi precedenti riportati” da altri studiosi, scrivono gli scienziati, “hanno abbassato l’EROEI a dati minori, nell’intorno dei 3:1”. Il giudizio scientifico su questo tipo di giacimenti è piuttosto netto: “I gas bituminosi, come le sabbie, sono fonti di petrolio di qualità molto bassa”. “Una serie di studi precedenti hanno suggerito un EROEI di 7:1 o addirittura di 13:1. Analisi più recenti basati sulla tecnica Shell, restituisce stime del 3-4:1”, anche se successive analisi portano il rapporto anche ad 1:1. In generale, dunque, queste nuove fonti di petrolio allungano la curva di Hubbert, formalmente andando ad aumentare la quantità di greggio che è disponibile al nostro pianeta; nuove tecnologie rendono estraibile questo combustibile, ma, attualmente, non ancora ad efficienza sufficientemente adeguata per garantire una situazione incoraggiante. Bisognerà dunque aspettare ulteriori passi in avanti della tecnologia per avere queste risorse messe in produzione a costi competitivi: ma da che si parlava di giacimenti del tutto irraggiungibili, di passi avanti se ne sono certamente fatti e molti altri si attendono.

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