La crisi della Roma? E’ colpa di Roma

Ora, non sono affari miei, non sono un cuore giallorosso, lo dico subito. Ma vivo a Roma e vorrei provare a fare una riflessione serena sulla situazione della squadra più amata della Capitale.

Claudio Ranieri: primo in Premier League con il Leicester. Ora, non tre anni fa. Ha fatto bene ovunque. A Roma lo hanno spesso deriso.
Luis Enrique: triplete con il Barcellona, record di gol, è l’allenatore della squadra più forte del mondo ed è anche merito suo (guardate Benitez o il Tata Martino, non basta avere i fenomeni, bisogna anche metterli in campo): serve davvero ricordare i soprannomi che gli son stati dati all’Olimpico e dintorni?
Luciano Spalletti, con lo Zenit ha fatto bene, a Roma benissimo, eppure anche lui finito nel tritacarne dell’opinione pubblica giallorossa.

Da quando ho memoria, chi sedeva su quella panchina è diventato presto o anche prima un coglione: Bianchi (Ottavio e Carlos, vincenti, e anche molto, altrove), Boskov, Zeman. Quasi tutti hanno fallito solo a Roma.
Anzi, neanche: Garcia è insultato per due secondi posti e ora, alla peggio, sarà a cinque punti dalla prima e quasi sicuramente agli ottavi di Champions.
Spalletti pagò un’Inter fortissima e anche piuttosto “sostenuta” ma fece vedere il miglior gioco per anni, Ranieri quasi vinse uno scudetto clamoroso e si dimise per giocatori che chiaramente gli giocavano contro (dopo aver avvertito tutti di ciò che stava succedendo). Zeman era vicino ai primi posti fino a Natale, nell’ultima avventura.
Ottavio Bianchi, tornando indietro, vinse una Coppa Italia con una squadra mediocre, che portò anche in finale Uefa, persa per un arbitraggio discutibile contro l’Inter. Come lo ripaga l’ambiente giallorosso? Con un coro divertente ma folle per una squadra che ha vinto pochissimo: “Ottavio Bianchi pelato, la Roma c’hai rovinato, la crisi è colpa tua, ma li mortacci tua”. La sua colpa? Un gioco troppo speculativo e mettere Bruno Conti in panchina a fine carriera (sì, lo so, vi ricorda qualcosa).
E per altro, caso più unico che raro, i mister, di qualunque carattere, nazionalità, carriera, a Roma si dimettono. In un mondo fatto di esoneri, nella Capitale preferiscono scappare e non prendere neanche i soldi.

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Viola, Sensi, gli americani. Giannini o Totti. Mazzone o Garcia. Tutto è cambiato, ma la verità è che solo una cosa rimane sempre uguale. L’ambiente. Una Roma che conosciamo bene. E di cui un certo milieu giallorosso spesso è il suo specchio distorcente. Una Roma che cerca sempre il capro espiatorio, che blandisce i giocatori in privato e li lincia in pubblico con subdoli pettegolezzi (il modo, per me indecoroso e un filo infame, in cui in tutti questi anni è stato trattato Daniele De Rossi è tanto illuminante quanto inquietante), con un ceto politico-mediatico che vampirizza squadre, società e dirigenti, che quasi sempre si dividono in clan. E che ben rispecchia la città: il modo in cui cittadini e burocrazia inetta e traffichina assimila chi vuole cambiare le cose oppure lo annienta. A Roma è tutto un porto delle nebbie, dal Campidoglio per la politica a Piazzale Clodio, per quanto riguarda la giustizia, passando appunto per Trigoria.

Se a Milano lo straniero Thohir è stato accolto con pazienza e propositiva attesa – ha cambiato il management, ha fatto scelte forti, ha modificato il modus operandi precedente – e ha avuto la possibilità di fare quadrato attorno a Mancini senza che l’ambiente nerazzurro, pur inquieto e spesso pericoloso, lo linciasse, James Pallotta è sempre e comunque un blablabla, come “Violadino bagarino” (altro coro celebre ai tempi del Flaminio) o l’ora compianto Franco Sensi (e pure Rosella, ora, rivorrebbero indietro). Già, perché da queste parti succede sempre così: l’apprezzamento arriva fuori tempo massimo. A volte, ahinoi, post mortem.

Nella Capitale, purtroppo, tutto è un eterno Colosseo, con il pollice verso a ucciderne uno per salvare gli altri cento e con tutto che si replica sempre uguale a se stesso.

Ora se possibile menatemi uno per volta.

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